Virtual Production: il futuro (già presente) dell’audiovisivo.
Dalle nuove tecnologie ai modelli di business.

di Chiara Benedettini
Come si gira oggi un film, una serie o uno spot? Sempre più spesso… senza uscire dallo studio. La Virtual Production sta rivoluzionando il mondo audiovisivo, fondendo reale e digitale. Dai LEDwall ai motori grafici, una nuova modalità di produzione sta prendendo piede anche nel nostro paese, tra nuove competenze e nuovi modelli di fruizione, con ricadute fino agli eventi dal vivo.
Nel mondo della produzione audiovisiva, la Virtual Production rappresenta una delle innovazioni tecnologiche più significative degli ultimi anni: una trasformazione radicale delle modalità con cui cinema, serie TV, pubblicità e persino eventi live vengono ideati, girati e finalizzati. Un’evoluzione che affonda le sue radici nelle esperienze del green screen, ma che oggi si avvale di tecnologie molto più avanzate, flessibili e immersive.
Se ne parla già da qualche tempo – basti pensare al caso esemplare di The Mandalorian (2019), che ne ha sdoganato l’utilizzo su scala industriale – ma oggi, anche grazie alla maturità di tecnologie come i LEDwall e i motori grafici in tempo reale, questa tecnica è in piena espansione.
Secondo un recente report di Grand View Research1, il mercato globale della virtual production è stato valutato circa 1,8 miliardi di dollari nel 2023, con una crescita attesa superiore al 18% annuo fino al 2030.
Cos’è la Virtual Production
La Virtual Production è una tecnica di produzione audiovisiva che combina riprese dal vivo con ambientazioni generate digitalmente, visibili in tempo reale durante le riprese grazie a grandi schermi LED. Gli attori si muovono in ambienti fisici minimi — spesso solo un pavimento e pochi oggetti scenici reali — mentre tutto ciò che li circonda, paesaggi, architetture o interni complessi, viene visualizzato sugli schermi LED ad alta definizione, sincronizzati con sistemi di tracking delle telecamere e con software di rendering 3D in tempo reale.
Il cuore del sistema è rappresentato da motori grafici real-time – il più utilizzato è Unreal Engine, sviluppato da Epic Games – capaci di generare ambienti 3D estremamente realistici, sincronizzati con la telecamera fisica attraverso tecniche di camera tracking. Così, l’attore vede l’ambiente in cui recita, il regista può comporre l’inquadratura già definitiva e la post-produzione viene notevolmente ridotta. Rispetto al green screen, questa tecnica permette una resa visiva molto più naturale, elimina i problemi di scontorno e — aspetto fondamentale — consente a registi, attori e direttori della fotografia di lavorare in ambienti virtuali “vivi”, con luci coerenti e feedback immediato.

Gli elementi tecnici
La struttura fisica della Virtual Production è costituita da grandi schermi LED, chiamati volumi, che possono circondare il set in configurazioni curve o a 360°. Non si tratta di normali schermi da videowall: quelli utilizzati in ambito cinematografico hanno una densità di pixel altissima (fino a 1.5 mm di pixel pitch), alta luminosità, profondi contrasti e refresh rate che devono essere compatibili con le esigenze della ripresa video (generalmente 60 Hz o superiori, con supporto per codifiche HDR e spazi colore estesi come Rec.2020). Un altro fattore cruciale è la frequenza di aggiornamento sincronizzata (genlock), che garantisce la perfetta corrispondenza tra movimento della camera e rendering dello sfondo.
Ma il LED è solo una parte dell’ecosistema. La scena virtuale è generata in tempo reale da software grafici avanzati: abbiamo già nominato Unreal Engine, il più usato per la sua flessibilità e capacità di produrre grafica fotorealistica in tempo reale. La natura digitale della Virtual Production comporta anche una profonda integrazione con le tecnologie di streaming e trasmissione IP. Molti studi utilizzano flussi video IP basati su protocolli come NDI, SRT o ST 2110 e Dante per l’audio, che permettono la gestione di segnali video e audio ad alta qualità su reti locali o via internet. Tutto ruota attorno a una rete dati ad alte prestazioni, che collega camere, server grafici, regia, sistema di tracking e LED wall. L’infrastruttura tipica include switch di rete ad alta velocità, encoder/decoder IP, server di rendering e storage centralizzati — spesso gestiti tramite piattaforme cloud-based per facilitare la collaborazione remota.
Grazie a questi strumenti, la post-produzione inizia già durante le riprese: gli editor possono intervenire in tempo reale, i VFX artist (creatori di effetti speciali) possono modificare asset sul set e i clienti possono assistere al girato da remoto. Nei casi più avanzati le riprese avvengono interamente in cloud, con rendering distribuito su server remoti e gestione centralizzata di asset digitali.

AV Broadcasting: la convergenza tra mondo AV e produzione
Per la sua natura ibrida, la Virtual Production si pone al confine tra mondo cinematografico, broadcast e AV professionale. Da qui nasce il concetto emergente di AV Broadcasting, che descrive proprio la convergenza tra le tecnologie AV (audio-video) e i flussi tradizionali del broadcasting.
Schermi LED, encoder video, audio over IP, regie virtuali, mixer digitali e protocolli di rete: sono tutti elementi già noti nel settore AV, oggi messi al servizio della produzione cinematografica e televisiva. Le tecnologie AV tradizionali (come i sistemi di distribuzione audio/video e i processori di segnale) vengono così integrate con strumenti tipici del mondo broadcast e IT, creando un ecosistema convergente.
Questa contaminazione apre nuovi spazi di mercato per system integrator, studi di produzione, agenzie pubblicitarie e broadcaster stessi, che possono ridefinire il modo in cui raccontano storie, prodotti o esperienze. Si cominciano a vedere, infatti, rental company o system integrator avviare business in questo settore, strutturandosi con studi virtuali che poi possono essere messi a disposizione di editori e produttori secondo un modello “as-a-service”, che prevede cioè il noleggio degli spazi al posto dell’acquisto del bene. Un modello che si applica volentieri proprio nei settori tecnologici avanzati, quando la specializzazione e la spinta innovativa, molto veloce, sono parte integrante del business.
Verso una nuova grammatica visiva
Oltre agli aspetti tecnici, la Virtual Production sta contribuendo a creare una nuova grammatica visiva: offre scenari più dinamici, interazione tra reale e virtuale sempre più fluida, tempi di produzione accorciati, eccetera. Volendo partire da esempi conosciuti da tutti, studi cinematografici di primo piano come Disney, Netflix e Amazon Prime hanno già integrato la Virtual Production nei loro flussi di lavoro, con risultati spettacolari e risparmi significativi in termini di costi e logistica. Ma anche nel settore pubblicitario e degli eventi — si pensi ai concerti in realtà aumentata o alle sfilate virtuali — questa tecnologia sta guadagnando terreno.
La Virtual Production non si delinea quindi solo come un’evoluzione tecnica che consente di migliorare flussi di lavoro e logistica, ma come una nuova grammatica visiva e produttiva che sta ridefinendo il modo di raccontare storie. Un linguaggio dove il digitale diventa parte integrante della narrazione, e dove la tecnologia non è solo uno strumento, ma una componente attiva della creatività.

Gli aspetti positivi: efficienza, flessibilità, creatività
La Virtual Production, come abbiamo visto, offre indubbi benefici. Uno dei motivi principali che spinge molte produzioni verso il virtuale è la semplificazione logistica. Girare in uno studio invece che in un luogo fisico significa eliminare trasporti, trasferte, gestione delle location e relativi vincoli (permessi, condizioni meteo, accessibilità). Questo impatta direttamente su budget e pianificazione: si riducono le giornate di shooting, si ottimizzano i carichi di lavoro, se le condizioni meteo non sono quelle attese le riprese possono aver luogo comunque, e si aumenta la prevedibilità dei costi.
La totale libertà dalla location fisica è un altro dei vantaggi più apprezzati, per ciò che riguarda gli aspetti creativi. È possibile costruire ambienti complessi, impossibili da realizzare nella realtà o troppo costosi, e modificarli anche on set. Tutti hanno in mente la scena della partita di Quiddich giocata su una scopa volante da Harry Potter: senza virtual set la produzione sarebbe stata infinitamente più complessa da realizzare e, probabilmente, il realismo meno evidente. Inoltre, la possibilità di salvare, adattare e riutilizzare scenografie digitali consente una logica di riuso strutturato, particolarmente utile in produzioni seriali o pubblicitarie a elevata rotazione.
Infine, grazie alla integrazione con strumenti di IA, è possibile generare ambienti o asset di scena partendo da descrizioni testuali o bozze, accelerando i processi di prototipazione. L’IA supporta efficacemente anche l’ottimizzazione dei flussi di lavoro (es. camera tracking predittivo, gestione delle luci, adattamento dinamico delle texture…), in modo da supportare il delicato lavoro dei tecnici. I motori grafici permettono di lavorare in logica WYSIWYG, offrendo un feedback visivo immediato già in fase di ripresa.
Un altro vantaggio concreto è la scalabilità della produzione: i sistemi possono essere progettati per operare completamente in-house, oppure si può fare affidamento su studi di Virtual Production in modalità as-a-service, mentre il produttore si concentra su creatività e regia. Questo modello è efficace, ma introduce anche una separazione tra il team creativo e quello tecnico, che va gestita con attenzione.

E i nodi da sciogliere
Tuttavia, nonostante gli indubbi vantaggi, non mancano le complessità e alcune barriere di accesso. Il primo, di ordine economico: mettere in piedi un sistema di Virtual Production richiede un investimento significativo già in fase iniziale. Serve dotarsi di LEDwall ad alta definizione, motori grafici real-time, server con GPU potenti (spesso multipli), sistemi di tracking e strutture di rete robuste. Il costo può facilmente arrivare a centinaia di migliaia di euro, rendendo la soluzione poco accessibile a produzioni medio-piccole.
Il secondo capitolo riguarda le maestranze: il mercato soffre di una ancora scarsa disponibilità di figure qualificate, costringendo le produzioni a reclutare talenti da settori affini. Per i tecnici, quindi, un idoneo percorso formativo può risultare indispensabile per candidarsi in queste produzioni, percorso peraltro non semplice da reperire in un panorama che ancora non vede percorsi dedicati e riconosciuti. Allo stesso modo, senza una base tecnica sufficientemente avanzata nelle varie specializzazioni, per un professionista già inserito nel settore con mansioni più standard può non essere semplice accedere a una formazione idonea.
Ci sono poi alcuni aspetti specifici del mezzo in sé: gli studi LED, per quanto la produzione sia stata previdente in fase di realizzazione, non sono espandibili e hanno misure fisse; inoltre, stiamo parlando di un ambiente ad alta complessità tecnologica, non facile da gestire in caso di guasti o malfunzionamenti.
Sul piano stilistico, per un certo periodo si era diffusa una certa diffidenza nei confronti di un’estetica percepita come “fredda” e artificiale, accompagnata dal timore di un’omologazione visiva nei contenuti realizzati con set virtuali. Preoccupazioni oggi in via di superamento, grazie a investimenti mirati in art direction e al contributo di fotografi consapevoli e preparati.

Un pubblico protagonista e un nuovo modo di produrre
Come accennato, The Mandalorian, la prima serie prodotta con tecniche di Virtual Production, rappresenta un modello produttivo che ha mostrato piena compatibilità con la logica della fruizione on demand, che implica serialità, modularità e, appunto, contenuti disponibili ovunque e in qualsiasi momento.
La serie, che non a caso era stata distribuita in esclusiva da Disney+, è stata solo l’esempio più evidente, ma già da qualche anno il panorama della fruizione audiovisiva stava subendo una trasformazione radicale. Il passaggio dal modello tradizionale della televisione lineare alle piattaforme OTT (Over The Top) ha ridefinito non solo la modalità di distribuzione dei contenuti, ma anche il ruolo dello spettatore, sempre più centrale, attivo e profilato, con uno spostamento del palinsesto dalle mani del broadcaster a quelle dell’utente.
In questo panorama, la sinergia tra Virtual Production e OTT si alimenta reciprocamente in maniera circolare: i contenuti prodotti con questa tecnica sono progettati fin dall’inizio per adattarsi a modalità di fruizione flessibili, multidevice, personalizzate; allo stesso tempo, le piattaforme OTT, grazie ai loro algoritmi e alla distribuzione globale, alimentano la domanda di contenuti coerenti e facilmente aggiornabili, caratteristiche che la Virtual Production è in grado di offrire.
Ma quali sono le ricadute di questo nuovo modello di fruizione? Sicuramente un modello di business data-centrico: ogni visualizzazione, pausa, preferenza e ricerca alimenta un algoritmo di raccomandazione che personalizza l’esperienza. Questo approccio ha moltiplicato le metriche di engagement e ridefinito i criteri di successo di un contenuto, basandosi su parametri quali il completion rate, cioè la percentuale di utenti che completano un contenuto, o la retention, la sua capacità di trattenere gli utenti ecc. Ha inoltre reso l’esperienza audiovisiva tipicamente fluida e cross-platform: oggi uno stesso contenuto può iniziare su uno smartphone durante un tragitto, proseguire su un tablet durante una pausa e concludersi su una smart TV a casa.
In parallelo, cresce l’interattività: dallo sport in live streaming con possibilità di accedere a replay istantanei o statistiche in tempo reale, fino a serie TV con finali alternativi (come “Bandersnatch” di Netflix), il contenuto diventa modulare, personalizzabile, fino a diventare in alcuni casi partecipativo. Un’evoluzione che sta cambiando anche il modo in cui si scrivono, si producono e si distribuiscono le storie: il modello narrativo sequenziale lascia spazio a percorsi non lineari, micro-contenuti e logiche transmediali.
Lo sport in particolare rappresenta una frontiera interessante, dove il modello lineare e quello on demand coesistono. Una caratteristica che si allarga anche agli eventi live, nel senso più ampio del termine: un concerto per esempio può beneficiare della possibilità di vedere più angolazioni dello show da camere diverse, di rivedere contenuti appena trasmessi, o immagini di repertorio che arricchiscono la diretta ecc. Passando agli eventi aziendali, si può puntare sul coinvolgimento del pubblico tramite messaggi personalizzati o la possibilità di misurare il successo del contenuto, che diviene modulare, accessibile in pillole o in forma integrale anche su piattaforme diverse, social media compresi, accompagnato da metadati che guidano la navigazione.
E la TV? È ancora presente, ma è diventata una delle tante finestre attraverso cui accedere a contenuti on demand, personalizzati e accessibili liberamente.

Virtual Production anche per eventi: nuove opportunità nel mondo corporate e per i brand
Oltre all’ambito cinematografico e seriale, la Virtual Production sta trovando applicazione crescente anche nel mondo degli eventi. Aziende, brand e organizzazioni stanno sfruttando questa tecnologia per creare esperienze immersive e spettacolari in contesti corporate, di comunicazione interna, di lancio prodotto o di engagement con i fan. In questi ambienti, gli stessi strumenti utilizzati per la produzione audiovisiva, dai LEDwall ai motori grafici, permettono di costruire scenari completamente personalizzati e interattivi, capaci di raggiungere sia il pubblico fisico in sala, sia quello remoto, con qualità televisiva. La flessibilità modulare della Virtual Production risponde perfettamente alle esigenze di eventi multicanale e multi-piattaforma, e si integra con le nuove abitudini di fruizione digitale, trasformando ogni evento in un contenuto strategico da distribuire on demand.
Il “caso” The Mandalorian
Quando The Mandalorian debuttò nel 2019, fu chiaro a molti che si trattava di ben più di una nuova serie nell’universo di Star Wars: era la prima grande produzione seriale ad adottare la Virtual Production in maniera sistematica, ponendo le basi per un nuovo modo di girare contenuti audiovisivi.
Al posto del tradizionale green screen, il team di produzione – guidato da Jon Favreau e dal supervisore degli effetti visivi Richard Bluff – scelse di utilizzare un ambiente virtuale immersivo battezzato StageCraft, sviluppato da ILM (Industrial Light&Magic, marchio della Lucasfilm Ltd), che prevedeva già un set circolare composto da LED wall ad alta risoluzione integrato con il motore grafico Unreal Engine.
Questa nuova modalità produttiva introdusse già i vantaggi tipici della VP: dall’immersione visiva in tempo reale con gli attori che vedevano realmente l’ambiente in cui recitavano (a differenza del green screen “classico”), all’illuminazione realistica: i LED generano luce coerente con l’ambiente virtuale, rendendo superfluo gran parte del lavoro di compositing in post-produzione.
Per la prima volta si sono sperimentate una scalabilità e libertà narrativa totale: ambienti come deserti, astronavi o città aliene potevano essere creati, modificati e animati direttamente in studio, con una libertà creativa impensabile su set reali o VFX tradizionali. La Virtual Production ha così reso possibile girare con qualità cinematografica, ma con tempi e costi più contenuti, e soprattutto con un controllo artistico completo.
Ma l’innovazione non si è fermata al set, estendendosi alla modalità di distribuzione: The Mandalorian è stato uno dei primi contenuti lanciati in esclusiva su Disney+, segnando l’inizio dell’era streaming first. Il pubblico non aspettava più la programmazione lineare o la sala, ma accedeva on demand, su più dispositivi, secondo i propri ritmi. Un cambiamento del modello di fruizione oggi ampiamente praticato, che sta cambiando le dinamiche dell’intera industria dell’audiovisivo.
La TV nell’era dell’OTT: un modello ibrido in cerca di identità
Negli ultimi anni i dati di ascolto della televisione tradizionale sono in costante calo, specialmente nelle fasce più giovani. Gli editori stanno cercando di intercettare un pubblico sempre più frammentato e disaffezionato al modello lineare, esplorando strategie ibride che combinano il broadcast con la logica on demand.
In particolare le generazioni più giovani stanno abbandonando la TV tradizionale: nella fascia 15-24 anni il tempo medio di visione si è drasticamente ridotto – in alcuni mercati europei anche sotto i 30 minuti al giorno – mentre l’utilizzo di piattaforme OTT, social video e contenuti mobile è in costante crescita. La fascia 25-44 mostra un comportamento intermedio: la TV resta presente, soprattutto per eventi live, ma è affiancata da un consumo sempre più rilevante di contenuti on demand e cross-device. Al contrario, solo tra gli over 55 si riscontra ancora un’abitudine significativa al consumo televisivo lineare tradizionale. (Dal Report Television Audience Trends 2024 dell’EBU - European Broadcasting Union).
Il modello emergente è quello della “TV ibrida”: contenuti live soprattutto sportivi, ancora capaci di attrarre spettatori in tempo reale, vengono affiancati da librerie on demand e da esperienze multischermo. La diretta rimane un asset, ma non è più il centro.
In questo nuovo panorama, anche i canali social – da YouTube a TikTok – stanno assumendo un ruolo da veri e propri editori e produttori di contenuti. Pur con standard qualitativi spesso più bassi, questi ambienti digitali riescono a intercettare enormi bacini di utenza grazie alla loro natura algoritmica, virale e mobile-first.
L’esperienza televisiva è quindi oggi solo una delle molteplici opzioni. Gli utenti si muovono tra app, piattaforme, social, device, creando un consumo fluido, frammentato ma sempre più personalizzato. È una sfida aperta per gli editori tradizionali, che devono ripensare linguaggi, contenuti e modelli distributivi.




