Intervista a Simone Madoni
Produzione virtuale e nuovi scenari del broadcast.

di Chiara Benedettini
Lo sport come contenuto premium, il digitale terrestre che resiste (forse, ma solo in Italia), i nuovi studi virtuali e la trasformazione delle professionalità tecniche, con un occhio particolare alla nostra realtà. Ne abbiamo parlato con Simone Madoni, attivo nella produzione audivisiva da oltre 30 anni, esperto di media technology, consulente di vari eventi dedicati e profondo conoscitore del settore.
Partiamo da una visione d’insieme. Qual è la situazione del broadcast in Italia rispetto al resto d’Europa?
Il mercato italiano del broadcast è peculiare: il digitale terrestre ha ancora una presenza piuttosto forte, al contrario di altri Paesi dove si è già passati quasi del tutto a modelli OTT. Le grandi concessionarie pubblicitarie italiane – come Publitalia e Rai Pubblicità – concentrano ancora la maggior parte della raccolta sul DTT (Digital Terrestrial Television). Ma è innegabile che stiamo assistendo a una dispersione dell’audience verso le piattaforme digitali. Il problema è che i dati di queste piattaforme sono proprietari e non sempre condivisi, quindi è difficile quantificare il fenomeno con precisione.
Lo sport, però, sembra rappresentare un punto di unione fra il mondo lineare e quello digitale.
Assolutamente, sì. Lo sport in Italia, ma non solo, è molto amato, rappresenta un contenuto premium per eccellenza. Ne sono prova gli investimenti che vediamo da parte di Sky o Dazn per acquisire diritti molto costosi. Eventi come la MotoGP, la Formula 1, il tennis o la Champions League attirano ancora grandi audience. Un esempio recente? La finale del Roland Garros trasmessa in chiaro da TV8 ha raggiunto picchi di oltre 8 milioni di spettatori. Se a questi sommiamo gli utenti delle piattaforme come Discovery+ o i canali tematici su Sky, il volume complessivo è enorme. Questo dimostra che la TV lineare, quando propone contenuti forti, funziona ancora.
Proprio nello sport notiamo che i detentori dei diritti mantengono il controllo anche sulla produzione. Un modo per tutelarsi e arginare la dispersione?
È una delle trasformazioni più significative. Oggi, chi detiene i diritti produce anche l’evento, e si parla quindi di prodotti “chiavi in mano”. ATP Media produce i tornei ATP; Dorna la MotoGP; Liberty Media la Formula 1. Questo consente a chi possiede i diritti di controllare la narrazione dell’evento, definendo a monte come lo sport deve essere raccontato, dalla posizione delle camere all’impianto audio: un modo per fidelizzare l’utente e proteggere il proprio business. L’editorie ha la possibilità di personalizzare il prodotto con le integrazioni , ma il segnale principale è già confezionato.
Passando alla produzione virtuale: anche in Italia ormai abbiamo diversi studi. Qual è il loro modello prevalente?
Nel nostro paese osserviamo una netta divisione geografica: Roma è focalizzata sulla serialità TV e sul cinema, Milano su pubblicità ed eventi. Il modello dello studio virtuale si è affermato soprattutto per la produzione cinematografica e delle serie, sulla scia dell’esperienza di piattaforme come Netflix e Prime Video. Lux Vide, per esempio, utilizza stabilmente studi virtuali per produrre i propri contenuti, soprattutto quando non è possibile (o comunque non è conveniente) girare in esterna. È il caso delle scene in auto, dove l’uso del “camera car” virtuale permette un grande risparmio e un maggiore controllo creativo.
È difficile in Italia reperire le giuste figure professionali?
In effetti la VP richiede figure professionali differenti e preparate. Il direttore della fotografia, per esempio, lavora in un set dominato da immagini generate su LEDwall, con riflessi e comportamenti diversi rispetto a un ambiente reale. Anche la figura del colorist, già centrale in passato, oggi diventa fondamentale nella post-produzione di contenuti girati virtualmente. Nella mia esperienza, tuttavia, vedo che è indispensabile la presenza di un supervisore della produzione virtuale, una figura tecnico-organizzativa ma con anche competenze manageriali, capace di coordinare le esigenze tecniche di studio – telecamere, ottiche, server, luci – e le figure operative, oltre che controllare l’andamento della produzione e degli investimenti.
Se le figure tecniche formate sono poche, è possibile che nella VP lavorino da remoto?
Sempre di più: nei live, nella produzione audio, nella color correction… grazie a infrastrutture di rete e a latenze accettabili, è possibile lavorare da remoto su una console o su una timeline di post-produzione. Ovviamente, la virtual production in senso stretto va fatta in studio, ma molti processi, dal controllo alle modifiche finali, sono remotizzabili. Questo apre a nuove possibilità nella selezione dei professionisti e nella collaborazione tra realtà geograficamente distanti.
Quindi siamo già a uno stadio maturo anche in Italia?
Si anche da noi la VP sta diventando strutturale. Da una parte c’è una progressiva convergenza tra broadcast e digitale. Dall’altra, la produzione virtuale non è più un esperimento, ma una realtà sempre più diffusa e raffinata.
Le tecnologie ci sono, ma ciò che fa davvero la differenza oggi è la formazione: serve una nuova generazione di professionisti capaci di muoversi in un contesto ibrido, tecnico e creativo allo stesso tempo.




