Corsi e ricorsi storici

Davoli Krundaal di Parma, raggiunse dimensioni imbarazzanti anche per un “grosso” di oggi...

di Stefano Cantadori

 

Quando ero un po’ meno giovane di adesso, in Italia ed in giro per il mondo c’erano una serie di aziende che costruivano impianti audio.

Alcuni tra i più grandi costruttori nel mondo erano, appunto, italiani. Uno segnatamente, la Davoli Krundaal di Parma, raggiunse dimensioni imbarazzanti anche per un “grosso” di oggi.

I grandi nomi delle chitarre (sì sì, proprio quelli lì) e degli organi chiedevano allora alla Davoli di distribuirli in Europa.

Per impianti intendo tutto: dal microfono al mixer, agli ampli, all’eco ed alle casse.

L’enorme esperienza accumulata in Davoli si sparse sul mercato. Alcuni uomini migrarono e prese il via una serie di altre case costruttrici.

Si comprava l’impianto Davoli o Cabotron o Lombardi o Lem o Semprini.

Tutta la catena era composta da pezzi della stessa ditta, “per avere tutto compatibile”. Per essere sicuri che non venissero mischiati i pezzi, alcune case differenziavano addirittura i connettori. Siamo negli anni ‘70.

 Le marche di impianti erano come sette di appartenenza. Si era adepti dell’una o dell’altra, ci si rispecchiava, si faceva il nido. Da ragazzino, ogni due garage c’era un gruppo di due o più individui che suonavano e cantavano. Lei voce e chitarra acustica, lui spesso la batteria, ma quasi mai la tromba.

Entrambi, indifferentemente, si applicavano all’organo.

Io ero troppo piccolo per capire cosa stesse succedendo. Già in corrispondenza dei miei 14 anni il fenomeno si era, purtroppo, decisamente ridimensionato. Nei garage erano entrate le automobili e, al massimo, potevo suonare il clacson.

Poi, negli ‘80, principalmente in Inghilterra, con lo sviluppo del rock ‘n roll, o meglio del touring in genere, nacquero alcuni piccoli costruttori specializzati in uno o due pezzi della catena.

 

Chi fabbricava il cross‑over elettronico modulare, chi si industriava a far le casse, un altro gli equalizzatori.

Non cito i nomi dei pionieri: da noi, in Italia, finirono quasi tutti sotto lo stesso tetto.

La qualità costruttiva e del risultato finale crebbe immensamente.

Gli impianti più avanzati erano composti da una serie di pezzi di tante aziende diverse, ultra-specializzate. Freni Brembo, gomme Good Year, motore BMW, telaio Williams. E via a correre in Formula Uno.

I connettori si standardizzarono, di fatto grazie alle scelte di quei pochi specialisti. Impedenze e livelli di ingresso ed uscita divennero cosa ovvia per ragioni tecnologiche (o logiche e basta) come la nascita del transistor e dei circuiti integrati. Tutto ovviamente, finalmente, totalmente compatibile.

Esplose e dilagò, post Beatles, il fenomeno di costume e culturale legato alla musica. I concerti divennero sempre più frequenti, non più isolate manifestazioni canore ma veri e propri tour (de force). Grandi raduni, festival pop, l’isola di Wight, Re Nudo al Parco Lambro, i gruppi, le star.

Si creò una fascia di mercato prima quasi inesistente: i noleggiatori.

 

Dapprima legati ai grandi costruttori, e da questi in qualche modo tenuti alla briglia, i primi noleggiatori del nostro paese fecero gavetta con prodotti italiani.

Inevitabile l’evoluzione della specie. La richiesta di estrema qualità costruttiva e sonora spinse verso i piccoli specializzati, le “cottage industries” inglesi che lavoravano praticamente su ordinazione.

 

Le grandi case “tuttologhe” dall’immenso catalogo rimasero indietro, anche se i loro prodotti costavano molto meno. Infine, dopo un processo nemmeno tanto lungo, i grandi divennero sempre più piccoli.

Sparirono quelle che una volta erano vere e proprie istituzioni e punti di riferimento. Non furono in grado, o non vollero, magari per raggiunta serenità economica dei titolari, trasformarsi ed adeguarsi alle mutate condizioni.

I piccoli specializzati tennero banco a lungo ed infine, giocoforza, crebbero.

Crebbero naturalmente, in proporzione a quello di cui si occupavano. La parte del leone nel professionale, in termini di fatturato, la fecero i costruttori di casse acustiche, essendo questo l’elemento più costoso del sistema.

Per grandi che fossero, anche i costruttori di casse americani erano nani in confronto ad altri segmenti dell’industria. Per cui furono fagocitati proprio da altri segmenti dell’industria.

Le casse acustiche, tra l’altro, da sole, usurparono e si accaparrarono il termine di “impianto”.

Dopo un periodo felice di assemblaggi da F1 in cui le casse non contavano più di tanto, si tornò ad avere l’impianto “Pinco” e l’impianto “Pallino”. Si formarono ancora una volta le sette (e siamo ai giorni nostri).

Niente più ricorso ai piccoli costruttori ultra specializzati: freni, gomme, motore, telaio erano tornati ad essere (chissà perché) della stessa marca o dello stesso gruppo. Ogni casa ci vuole vendere tutto. Via anche tutte le regolazioni. Il cliente è troppo ignorante per lasciarlo fare. L’impianto va sempre bene così come esce dalle scatole, voilà: una pillola che cura tutte le malattie. Se la pista è corta o lunga o veloce oppure consuma di più le gomme interne, non c’è problema. Abbiamo montato gomme durissime.

Il sassolino nella scarpa di oggi: qualche fornitore tuona: “Guai a comprare amplificatori di un’altra marca. Se rompi i coni non riconosciamo la garanzia”.

Ma, dico, stiamo scherzando? Se una bobina è interrotta è in garanzia. Se è bruciata no. Punto.

Uei ragazzi: riprendiamoci in mano il pallino.