Furia Cavallo del West

The Show must go On negli anni '70. Illusioni politiche, memorie musicali, avventura e tanta fame.

di Stefano Cantadori

Lupetto

Per la seconda parte del tour Peppone aveva portato il suo camion. Si era messo d’accordo in qualche modo con la ditta, la Wilder di Willy Davoli, il primo noleggio italiano di amplificazioni organizzato con uffici, magazzini, furgoni, in grado di servire varie tournée contemporaneamente. Peppone si presentò a caricare con un lungo telonato, che per proteggere il carico dai furti non era proprio l’ideale. La soluzione che adottò fu semplice: avrebbe dormito nel cassone. Ogni sera il carico veniva predisposto in modo tale da poter stendere in piano un materasso o due (c’era anche il cugino). A me, per ragioni che non interessava nemmeno comprendere, spettava la cabina.

Ho passato anni della mia vita dormendo rannicchiato sul sedile, con i piedi sul cruscotto. Anche il telonato aveva la cofanatura motore in cabina e non potevi stenderti per il lungo (o per il largo, dipende dal punto di vista). Ed era per me del tutto naturale. Dormivo con un occhio solo, ovviamente. Avrei riposato il giorno dopo, con il camion in movimento. Non avevo ancora la patente, la presi il più tardi possibile per evitare di dover fare anche l’autista. Quel sonno mattutino mi spettava. Peppone dormiva durante lo spettacolo, perché dopo avrebbe dovuto guidare. Ero in grado di dormire in qualsiasi condizione, quando potevo farlo.

Dormire e mangiare, a quei tempi, non erano necessità che si potessero soddisfare tutti i giorni. Non combinavano gli orari. Dopo lo spettacolo gli artisti andavano a cena. Noi smontavamo l’impianto e caricavamo. Al termine era difficile procurarsi anche solo una pizza o un pezzo di pane. Nessuno si occupava di noi; eravamo i paria dello spettacolo. Sporchi, occhi cerchiati dal sonno, non eravamo il prototipo dell’ospite gradito. Inoltre, era buona regola fare strada immediatamente, allontanarsi di almeno un centinaio di chilometri dal luogo dello spettacolo. Quello che potevo, lo ingurgitavo prima dello spettacolo, seduto dietro al mixer, posizione che era necessario presidiare fin dal suo montaggio. A quei tempi non esistevano transenne, passacavi, torrette. Bambini e ragazzetti erano liberi di scorrazzare ovunque, la piazza chiusa al traffico ed addobbata a festa era una gigantesca sala giochi.

I concerti in Sud Italia avvenivano quasi sempre in concomitanza con la festa del paese, quella del Santo Protettore. Noi, quindi, come facenti parte dell’evento, non avevamo nulla da temere, ma i danni che un gruppo di ragazzini può arrecare alle parti tecniche non sono riparabili da un esercito di adulti.

Un giorno, il telonato fece il suo ingresso in una grande piazza. Da un lato, una sfilata di bar e negozi; dall’altro, riparatori di auto, cicli e moto, gommisti: piccoli antri dalle pareti nere di nafta, fumi e gomme, come quelle di tutte le officine di un tempo. Io precedetti a piedi il camion, per cercare il parcheggio senza che ci appioppassero multe, ed anche perché sembrava che l’unico accesso percorribile, senza rischiare di abbattere balconi, fosse un senso vietato. Ottenni lo scopo con qualche difficoltà a causa della mia parlata nordica e del mio aspetto vagamente vichingo, ma la carta “Mal dei Primitives” e “Furia”, allora si era primi in classifica, sortirono l’effetto sui vigili di guardia: potevamo arrivare tramite il senso vietato e fermarci al centro della piazza.

Il camion non si era ancora del tutto fermato che un’orda di ragazzini gli aveva già dato l’assalto per vedere... il Cavallo!

Ah! In quel giro si ruppe l’albero di trasmissione. Peppone si infilò sotto il camion, lo smontò, lo portò dal lattoniere davanti al quale avevamo parcheggiato e lo fece saldare. Un pit stop da meno di un’ora.

 

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