La musica mai ascoltata

La musica mai ascoltata è effimera come una nota che svanisce.

di Stefano Cantadori

La musica mai ascoltata è effimera come una nota che svanisce.
Dopo un’ora e mezza di navigazione notturna nell’ubertosa campagna reggiana, tra superstrade e stretti viottoli guidato da un pessimo software tedesco su mappe italiane non aggiornate, arrivo in mostruoso ritardo al concerto di due miei amici pianisti. Ci tenevo non solo a vederli ma anche a sentirli suonare insieme. Come spesso capita in estate, avevo potuto lasciare l’ufficio solo ad ora tarda, niente cena. Antifurto, macchina in moto e via verso un territorio così vicino ma a me quasi altrettanto sconosciuto.
Alle 23.30, dopo aver consultato i passanti di un paio di villaggi, trovo finalmente la spettacolare Villa con Parco, l’addetto mi fa passare e parcheggio. Sento levarsi un applauso scrosciante e riesco ad entrare nell’antica corte con letteralmente l’ultima nota che sta svanendo nell’aria. Il concerto è finito, non c’è più, provo una delusione da bambino.
La musica non te la possono raccontare, devi esserci. Viverla intanto che si forma, si intreccia, si dipana, si arrovella, esplode di gioia o struggente tristezza.
In quel momento di non partecipazione, inusuale per chi come noi vive lo spettacolo da dentro, con un occhio ai tecnici che già avevano la mano sui bauli, ho avuto un pensiero fugace: qual è il nostro ruolo?
Sono tanti: c’è chi progetta i dispositivi e chi li produce, chi trasporta i materiali, chi installa e regola l’impianto, quelli che montano i fari e gli strumenti, chi “regola i bottoni”. Eppure c’è un solo scopo: far risplendere l’opera dei musicisti.
La musica è effimera, esaurita nel rumore di fondo l’ultima vibrazione, non c’è più. Se non la hai ascoltata non potrai averne ricordo od emozione. La magia della musica dal vivo è lì, solo in quel momento solo quella sera e un’altra sarà diversa. Anche registrata non è più la stessa cosa. È un’altra.
Forse è per questo che vogliamo essere lì con loro quando la magia avviene.

Pensa che perdita se nessuno avesse registrato il concerto di Colonia.
Da ragazzo ho lavorato (si dice così quando amplifichi un musicista che suona al festival jazz dove sei di servizio) diverse volte con Keith Jarrett. Posti splendidi o infami tribune da stadio, caldo insopportabile o serate dal clima ideale ma mai, nemmeno da lontano, presero forma quelle note, quel torrente di emozioni che corrono in equilibrio sul filo di una corda di pianoforte e sull’anima stessa della musica.
Il concerto di Colonia rimane un’opera unica, irripetibile, con il suo coacervo di emozioni cascate di suoni rilucenti, esitazioni ed esondazioni, struggimento e gioia, un’opera che su alcune note sembra essere in procinto di spalancare le porte dell’universo mondo.
Di quella volta, è valsa assai più la pena disporre delle registrazioni che esserci stati. La possiamo rivivere ogni volta, in modo diverso la mattina e la sera, con il caldo e con il freddo, rivista secondo il mood del momento.
Certo che, se il mood del momento non ci consente di essere trascinati nel mondo magico di quella sera, astratto e universale, è meglio spegnere il dispositivo riproduttore e fare qualcos’altro. La musica, l’arte, richiedono rispetto. Come l’artigiano falegname usa la pialla per il giusto verso del legno, anche noi dobbiamo imparare a rispettare la materia impalpabile di cui è composta la musica.
Perché se il legno viene dall’albero, la musica scaturisce dall’anima.
Filtra via lo sporco, lucida la superficie di quella gemma, fai in modo che la luce la colpisca dall’angolo giusto e mostrala al mondo su un cuscino di velluto nella tua teca più bella.
Se sarai capace di farlo, tutti quelli che assisteranno allo spettacolo ne godranno, anche se solo pochi te ne daranno merito.
Come l’artista, spesso dovrai suonare per te stesso. Fai in modo che la tua anima vibri e gioisca per la tua opera.

Gli altri, saranno solo giorni di lavoro come tanti.