Il colore della luce - Parte 1

La ricerca di uno standard di classificazione nell'affascinante mondo della colorimetria.

Il colore della luce - Parte 1

di Michele Viola

Quando osserviamo un oggetto, il colore che vediamo è il risultato delle proprietà di riflessione della superficie dell’oggetto stesso e della composizione spettrale della luce che lo colpisce. Un oggetto rosso, ad esempio, si mostra di tale colore proprio perché la sua superficie tende a riflettere la componente rossa della luce che lo colpisce, assorbendo in gran parte le altre componenti, cioè gli altri colori.

La luce bianca è di fatto idealmente composta da ‘tutti i colori’. La decomposizione della luce nelle sue componenti colorate fa parte dell’esperienza comune grazie al fenomeno della rifrazione, che produce tra le altre cose quella manifestazione naturale meravigliosa che è l’arcobaleno. L’arcobaleno mette in qualche modo in evidenza le componenti della luce solare, separate nei vari colori. Lo stesso fenomeno, attraverso un prisma o anche attraverso il fondo di un bicchiere, può mettere in evidenza la distribuzione spettrale di energia in un fascio luminoso generato da qualunque sorgente.

L’energia contenuta in fascio luminoso è quindi distribuita tra diversi colori. La quantità relativa di energia contenuta in ciascuna regione spettrale determina il ‘colore’ del fascio, ovvero il colore che si vede quando il fascio in questione colpisce una superficie bianca.

Il diagramma di cromaticità CIE 1931 xy. Sul bordo esterno sono riportate le lunghezze d’onda monocromatiche dei corrispondenti colori puri, in nanometri. L’immagine proviene da wikimedia.

Una ‘superficie bianca’ si presenta appunto bianca perché riflette tutte le componenti della luce che la colpisce. Se la luce che la illumina non è ‘bianca’, cioè se l’energia associata al fascio non è uniformemente distribuita nello spettro, tale superficie riflette comunque tutte le componenti, per cui il colore che si vede è, in pratica, il colore del fascio luminoso sorgente.

Se la luce non è bianca e contemporaneamente l’oggetto non è bianco, allora il colore risultante sarà influenzato sia dal colore della luce, sia dal colore dell’oggetto.

Il colore di un oggetto rosso, in altri termini, sarà quindi influenzato dalla quantità relativa di energia nella banda di frequenze del rosso contenuta nella luce che lo colpisce, oltre che dalle proprietà di assorbimento e riflessione della sua superficie. 

Lo stesso oggetto può quindi apparire di colori diversi quando illuminato da sorgenti differenti, e credo che anche questa sia un’esperienza piuttosto comune.

Diverse categorie industriali e professionali, quali grafici, designer, operatori della moda, del settore della cosmesi e non solo, sono ovviamente interessati a una definizione precisa del colore e, di concerto, a una caratterizzazione precisa delle diverse sorgenti luminose. Negli anni, sono quindi stati sviluppati vari standard che hanno come argomento il colore e come questo viene visto.

Alcuni standard riguardano specificatamente la luce emessa dalle diverse sorgenti luminose, e in qualche modo cercano di caratterizzare tali sorgenti in base a come queste influiscono sulla percezione del colore degli oggetti illuminati. 

La ricerca di uno standard di classificazione è ovviamente complicata, soprattutto dal fatto che la percezione del colore è estremamente soggettiva. A causa della conformazione e della complessa natura del sistema visivo umano, individui differenti spesso percepiscono uno stesso colore in maniera differente; inoltre, una minima variazione nelle condizioni ambientali, nella sorgente luminosa ma anche nel colore e persino nella posizione degli oggetti circostanti, può risultare in una variazione significativa nella percezione del colore di un oggetto o di una superficie.

Vista ‘dall’alto’ dello spazio colore tridimensionale CIELab. L’immagine proviene da wikimedia.

Lo spazio colori CIE

La Commissione Internazionale per l’Illuminazione, comunemente abbreviata con l’acronimo CIE (dal suo nome in francese: “Commission Internationale de l’Éclairage”) è un’organizzazione fondata nel 1913 che si occupa propriamente di proporre degli standard con valenza internazionale relativi alla luce ed al colore. Lo ‘spazio colore’ CIE 1931 rappresenta un primo sforzo per definire una corrispondenza tra la distribuzione di energia nello spettro della luce visibile e il colore percepito.

Lo spazio CIE 1931 era basato su un’elaborazione del concetto di coordinate RGB, un colore è composto dalla somma di radiazioni luminose dei tre colori fondamentali rosso, verde e blu (RGB dalle iniziali in lingua inglese: Red, Green, Blue). Questa modalità di composizione del colore è piuttosto comune nelle applicazioni televisive e informatiche: un pannello LED, come quello dello schermo di un computer o di una moderna TV, si può pensare in buona sostanza come formato da una fitta griglia di lampadine colorate, appunto, di rosso verde e blu.

Negli anni ‘70, la Commissione CIE ha introdotto lo spazio colore CIELab (spesso indicato con la sigla CIE 1976), basato su un sistema di ‘coordinate di colore’ proposto qualche anno prima, in cui L rappresenta la luminosità mentre a e b rappresentano due coordinate di colore: a va dal verde al rosso e b va dal blu al giallo. Componendo queste tre coordinate si possono produrre tutti i colori percepibili (e, in un certo senso, anche di più). Nello spazio CIELab, a una data variazione dei valori di un parametro corrisponde approssimativamente una variazione analoga della percezione. Da notare che, essendo basato su tre coordinate, lo spazio CIELab (come il precedente CIE 1931, del resto) è uno spazio appunto tridimensionale: le varie rappresentazioni bidimensionali sono utili sezioni, o comunque ‘appiattimenti’, di tale spazio.

Non vorrei, almeno per ora, addentrarmi ulteriormente nei tecnicismi di questo argomento specifico, basti per ora passare il concetto che esiste una standardizzazione della corrispondenza tra parametri fisici e percezione del colore.

Il diagramma di cromaticità CIE 1931 con indicato l’andamento del colore che un corpo nero ideale assumerebbe al variare della temperatura (‘luogo di Plank’). I segmenti che intersecano la traiettoria di colore del corpo nero indicano punti a temperatura di colore costante. Sul bordo esterno sono riportate le lunghezze d’onda monocromatiche dei corrispondenti colori puri, in nanometri. L’immagine proviene da wikimedia.

La temperatura di colore

Per quanto riguarda la luce, un primo parametro che caratterizza le sorgenti luminose è la temperatura di colore.

Forse anche data l’età, il nome ‘lampadina’ evoca nella mia mente il classico bulbo con filamento, che produce luce per incandescenza. Da qualche tempo, le lampade ad incandescenza non sono più utilizzate per l’illuminazione domestica, a causa del basso rendimento energetico, per cui il comportamento di tali oggetti potrà presto uscire dall’esperienza comune. Chi si occupa professionalmente di illuminazione, comunque, sa cos’è una lampada a incandescenza. Osservando una lampada a incandescenza accesa, è facile notare che la luce che questa emette, nominalmente bianca, è in realtà inesorabilmente gialla. La temperatura che renderebbe effettivamente ‘bianco’ il filamento incandescente sarebbe superiore alla temperatura di fusione del tungsteno, cioè del materiale comunemente utilizzato per produrre i filamenti delle lampade. Quindi non è praticamente possibile produrre una luce veramente bianca utilizzando un filamento incandescente. Se come riferimento per la ‘luce bianca’ vogliamo prendere, ad esempio, la luce del sole, beh: il sole con i suoi 5500 °C in superficie è ben più caldo del filamento di una lampadina.

La temperatura di colore di una sorgente è quindi la temperatura di un oggetto che produrrebbe una luce di colore comparabile con quella della sorgente stessa. In realtà, il colore della luce emessa da un oggetto dipende, oltre che dalla sua temperatura, anche (ovviamente?) dal colore originario della sua superficie. Per questo la temperatura di colore è riferita ad un oggetto (caldo) ideale perfettamente nero

Il concetto di temperatura di colore ha ovviamente senso solamente per le sorgenti luminose il cui colore corrisponde a quello della luce emessa da un oggetto incandescente, ovvero in un range dal rosso, all’arancio, al giallo, al bianco, fino ad un bianco-azzurro. Non avrebbe senso, ad esempio, parlare di temperatura di colore di una sorgente luminosa verde.

La temperatura di colore è normalmente espressa in gradi kelvin, simbolo K, che è l’unità di misura del Sistema Internazionale per la temperatura. La temperatura in kelvin si dice ‘temperatura assoluta’: lo zero della scala kelvin corrisponde a circa –273 °C ed equivale alla temperatura dell’infinitamente freddo, ovvero zero energia, mentre una variazione di un kelvin corrisponde alla variazione di un grado centigrado.

Il colore della radiazione emessa da un corpo nero al variare della temperatura su una scala lineare da 800 K a 12.200 K. L’immagine proviene da wikimedia.

In pratica la scala kelvin equivale alla scala centigrada traslata di 273: 273 K (cioè 0 °C) è la temperatura assoluta dell’acqua che ghiaccia e 373 K (cioè 100 °C) è la temperatura assoluta dell’acqua che bolle. E, ancora, 5770 K corrisponde approssimativamente alla temperatura della superficie del sole (che tende ancora al giallo), mentre la temperatura della luce emessa da una comune lampadina a incandescenza si aggira intorno ai 2500 K.

Il colore della superficie del sole, e ancora più il colore della luce del giorno, o del cielo (che variano in base al momento della giornata e alle condizioni atmosferiche), dipendono da vari fattori tra cui, ad esempio, la diffusione della luce nell’atmosfera terrestre. In pratica, la temperatura standard della ‘luce del giorno’ è compresa tra i 5500 K e i 6500 K (CIE D65).

La temperatura di colore caratterizza quindi in un certo modo le sorgenti luminose ‘bianche’. Rimane però il fatto che due sorgenti con la stessa temperatura di colore possono rendere lo stesso oggetto in maniera molto diversa dal punto di vista del colore della superficie. Ricordo da ragazzo un paio di pantaloni verdi (alla luce del sole erano incontestabilmente verdi, come le olive verdi) che alla luce dei tubi fluorescenti diventavano marroni.

Una considerazione, forse banale, riguarda il fatto che un fascio colorato (o bianco, se vogliamo) può essere composto – o pensato come la composizione di – tre fasci di colore rosso, verde e blu di diverse intensità. Lo spettro della luce visibile è però uno spettro continuo, e se nella composizione dei tre fasci colorati mancano alcune bande di frequenza, i colori corrispondenti non si vedranno. In altri termini, se nella luce emessa dalla sorgente manca una parte tra il verde e il blu, anche se la temperatura di colore fosse nominalmente la stessa della luce del giorno, il colore degli oggetti la cui superficie contiene pigmenti del colore mancante risulterebbe inevitabilmente alterato. Questo è particolarmente evidente, appunto, con alcuni tipi di sorgenti luminose fluorescenti, che presentano uno spettro di emissione tipicamente ‘a righe’, in cui mancano diverse componenti di colore, per cui il colore di molte superfici illuminate da tali lampade può risultare decisamente diverso rispetto al colore della stessa superficie illuminata dalla luce del sole, anche nel caso frequente in cui la temperatura di colore della sorgente fluorescente è simile alla temperatura di colore della luce del giorno.

D’altra parte le lampade a incandescenza, il cui relativamente recente divieto di commercializzazione a causa del basso rendimento energetico ha prodotto diversi malumori tra gli operatori professionali (lighting designer e direttori della fotografia, ad esempio), pur avendo temperature di colore spesso significativamente più basse rispetto alla luce del giorno, presentano tipicamente uno spettro di emissione continuo e anche, con una certa attenzione costruttiva, relativamente uniforme nella banda di emissione. Questo produce una maggiore coerenza nella resa dei colori, proprio perché nello spettro di emissione non mancano bande di colore.

Lo spettro di un corpo illuminante con lampada fluorescente. Le etichette sui picchi si riferiscono alle lunghezze d’onda prodotte dall’eccitazione dei vari composti fluorescenti utilizzati per la costruzione della sorgente. L’immagine proviene da wikimedia

La qualità del colore

La temperatura di colore di una sorgente bianca, seppure rappresenta un parametro descrittivo fondamentale, non è quindi sufficiente per caratterizzare la qualità della luce emessa da una particolare sorgente luminosa.

La commissione CIE ha proposto un metodo per specificare, in maniera quantitativa, tramite un indice numerico detto CRI (dalle iniziali in inglese: Color Rendering Index, in italiano indice di resa cromatica), la capacità di una sorgente luminosa di rivelare fedelmente il colore degli oggetti rispetto ad un’illuminazione naturale, o comunque ad una sorgente luminosa di riferimento.

Il metodo proposto da CIE è tuttora in evoluzione, anche grazie al lavoro di altri enti e associazioni, e sarà l’argomento del seguito del presente articolo. 


Seconda puntata

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