Rodolfo “Foffo” Bianchi

Rodolfo Bianchi, che tutti conoscono come Foffo, è uno dei professionisti più preparati nel nostro settore...

di Giancarlo Messina

Fiorentino, classe 1944, due figli di 29 e 27 anni: alla veneranda età di 62 anni, lo troviamo in uno stadio, dietro la console (digitale) di uno dei più importanti tour italiani.

E la cosa non ci sorprende affatto, perché Rodolfo Bianchi, che tutti conoscono come Foffo, è uno dei professionisti più preparati nel nostro settore, con un bagaglio di esperienze maturato attraverso almeno 40 anni di musica ai più alti livelli professionali. Certo non è da tutti conservare, lungo questi numerosi anni, l’entusiasmo per un lavoro a volte così logorante, che richiede sempre un costante e continuo aggiornamento tecnico.

Con i suoi modi di persona schietta ed amabilissima, Foffo ci racconta la sua storia.

Come ti è venuto in mente di fare questo lavoro?

Ho cominciato come musicista, professione che ancora oggi reputo più vicina alla mia attività. Da questa passione sono derivate tante situazioni, sempre legate al mondo della musica.

Cosa suonavi?

Suonavo il sassofono, l’ho suonato per tanto tempo. Avevo cominciato a nove anni come clarinettista, ma un giorno, alle prese col pignone di una motocicletta, ebbi un infortunio e mi saltò la prima falange di un dito, per cui dovetti necessariamente passare al sassofono, visto che non riuscivo più a suonare il clarinetto. Iniziò così il mio apprendistato da autodidatta, perché io faccio parte di un’altra generazione: allora purtroppo c’era poca informazione, anche nel mondo degli strumenti musicali si sapeva poco, quello che si imparava era frutto di esperienze empiriche personali. Pragmatismo assoluto! Nel frattempo studiavo al liceo, così iniziai a frequentare piccoli complessi di studenti che si esibivano nelle balere, perché le discoteche ancora non esistevano. Così, a 15 anni, cominciai le mie prime esperienze live come sassofonista. A vent’anni formai un gruppo con il quale ho poi continuato a suonare per una decina d’anni, cambiando varie formazioni: erano i tempi della scoperta del rhythm and blues! Dopo il liceo andai all’università, scelsi Giurisprudenza, sperando di avere ancora tempo libero per la musica, ma presto mi accorsi che, in realtà, io avrei potuto fare tutto nella mia vita tranne il giureconsulto o l’avvocato! Così, dopo il servizio militare, abbandonai l’ateneo e decisi di dare una svolta professionale alla mia attività musicale.

E qui entra in campo quella che è stata la nostra “università della discografia”...

Sì, entrai in RCA. Grazie a degli amici, venni infatti a sapere di una richiesta di assistenti musicali da parte della RCA di Roma, allora realmente considerata l’università europea della discografia.

In Italia moltissimi tuo colleghi, e non solo, vengono da RCA. Perché veniva ritenuta un’università della discografia? Cosa succedeva all’interno?

RCA era praticamente una città. Io ci sono entrato nel ’72, ma esisteva già dal ’60. Già negli anni Sessanta era un’industria capace di curare il prodotto da zero fino alla confezione. Si partiva da un’idea, magari la registrazione di una voce più un pianoforte o una chitarra, e si decideva se era il caso di proseguire, lavorando al progetto a livello artistico. Se il progetto partiva, il lavoro veniva seguito fino al confezionamento del vinile. C’erano ben cinque studi, che lavoravano 365 giorni all’anno, in certi periodi perfino la notte, c’era tutto l’artwork, ovvero tutto il settore che si occupava della progettazione e della realizzazione del progetto artistico, e c’era il reparto marketing che curava i contatti per le vendite.

Insomma in stile americano...

– Sì, RCA era americana. La sigla stava per Radio Corporation of America e aveva fondato, anche tramite influenze del Vaticano, una specie di filiale Europea in Italia. Era una filiale per modo di dire, perché l’azienda RCA di Roma, allora, aveva altre dieci filiali nelle città italiane più grandi, da Milano a Catania.

Era più potente della RAI?

Molto più potente della RAI, a livello di distribuzione musicale non c’era assolutamente paragone. Come organizzazione in Europa era tra le prime, solo inferiore a qualche azienda inglese o francese.

Qual era il tuo ruolo in RCA?

Il mio obiettivo era quello di diventare produttore, così iniziai facendo l’assistente musicale. Tutti iniziavano così e, se eri bravo, in media, questa attività durava un paio d’anni. Io dopo soli sei mesi fui mandato alla produzione, perché era tale il mio entusiasmo che subito si accorsero di me, e perché il direttore generale, Ennio Melis, aveva evidentemente visto in me delle virtù. Per diventare produttore c’era una specie d’istruzione interna, affidata ad un ingegnere, ed ogni mattina c’era un corso scolastico di ingegneria acustica volta ad insegnare il funzionamento dei microfoni, le tecniche di mixaggio, ecc. Insomma veniva impartita una preparazione tecnica di ottimo livello che allora, ed in parte ancora oggi, non era sempre facile costruirsi. Ogni produttore, assieme ad un team di personaggi che comprendeva un ingegnere del suono, un recordista, un microfonista e altri soggetti utili, seguiva un determinato progetto. Io, nel lungo tempo passato in RCA, fui incaricato di seguire lavori egregi, come la produzione del primo complesso progressive italiano, i “Rovescio della Medaglia”, o grandi artisti internazionali come Luis Enriquez Bacalov. Tra i big italiani ricordo la Oxa, Riccardo Fogli, Baglioni, Dalla e tanti altri.

Come avvenne il passaggio da produttore a fonico?

Collaborando con questi grossi personaggi, cominciai a sentire l’esigenza di attuare personalmente le sonorità che avevo in mente, quello che era il mio progetto artistico. Diventava infatti difficile trasferire nella mente del fonico che avevo vicino quello che io avevo in testa: come si fa a spiegare, ad esempio, l’idea di un certo suono di rullante ad una persona che magari ne ha in mente uno totalmente diverso? Per queste esigenze mi sembrò necessario iniziare a ”spingere i bottoni” ed avvicinarmi a quello che, solo in seguito, e per mia scelta, è diventato la mia professione.

Già: perché hai abbandonato l’ambiente discografico?

Fondamentalmente per disamore nei confronti dell’ambiente della musica italiana e dei sistemi che tuttora lo regolano. Così ho deciso di prestare la mia opera agli spettacoli live.

Qual è stato il tuo primo concerto live?

Credo proprio Baglioni, nel ’79. Infatti nel ’78 sono uscito da RCA e sono diventato un produttore free-lance, iniziando subito con Claudio. Avevamo lavorato insieme, ero stato il produttore di un disco abbastanza importante per la sua carriera, “E Tu Come Stai?”. Il tour di Baglioni fu il mio primo approccio ad un evento abbastanza grande, sempre relativamente parlando, perché all’epoca le produzioni inglesi già portavano avanti situazioni per noi immense, tipo i Genesis o i Jethro Tull e tanti altri gruppi dell’epoca.

Ricordiamo quei tempi? Con che impianto girava Baglioni?

C’era un impianto Lombardi, messo a disposizione dal povero Guarnieri, in arte “Mani bruciate”. Io ero il produttore di Baglioni e cominciavo a mettere le mani sul mixer e ad avere i primi rapporti con i live. Al tempo era una cosa di una difficoltà immane. Non è come oggi, che il fonico ha già a disposizione un line array perfettamente in fase ed allineato, la fase quella volta era un optional! Gli impianti erano composti da sistemi multivia, tanti altoparlanti messi più o meno vicini, con incredibili problemi di filtri a pettine, combing e varie altre bellezze... Ma lo show si portava a casa anche così.

Cosa ricordi con maggior piacere del tuo percorso?

Guarda, ricordo con piacere le prime belle esperienze fatte dal punto di vista professionale nei tour di Ruggeri e di Morandi, allora gestiti dall’azienda romana “Staff” di Fausto Paddeu e Gianni Marsili, due grandi personaggi che meritano di essere citati. Io li avevo già incontrati perché anche loro erano passati dalla RCA. Marsili aveva preso in mano Cocciante, mentre Paddeu aveva iniziato a lavorare con Ruggeri, per poi diventare manager di Morandi. Loro mi chiamavano e poi mi affiancavano per eventi di questo tipo. Ricordo un tour di Morandi, nel 1983, che si concluse con 130 concerti in un anno. Si lavorava praticamente tutti i mesi, e certo se questo si paragona ad i tempi di oggi... cadono le braccia.

Chi ricordi negli anni tra i tuoi colleghi o tra i personaggi che hai incontrato?

Ricordo con tanto affetto Alberto Butturini, che mi ha fatto da assistente in un tour di Dalla negli anni ‘86/’87. Si vedeva subito che Alberto aveva la stoffa per poter intraprendere la carriera che ha poi avuto, ed infatti, dopo pochissimo, prese in mano i concerti di Fiorella Mannoia. Ricordo con grande piacere anche il mio caro amico Franco Finetti, che ho la fortuna di frequentare ancora. È stato un po’ il mio punto di riferimento sotto molti aspetti, ed ancora pochi giorni fa l’ho consultato per avere il suo parere sulla console digitale che uso in tour.

Cosa non rifaresti invece, quali sono stati i tuoi errori?

Non si può parlare di errori. Tutti, ogni tanto, si guardano allo specchio e fanno un esame di coscienza, durante il quale ognuno si deve comunque riconoscere e giudicarsi, buono o cattivo che sia. Io, quando faccio questo esame, mi chiedo: “Ho fatto la mia professione con dignità o no?”. Di fronte al mio specchio, io ritengo di essere una persona totalmente soddisfatta. Se guardo il mio conto in banca, invece, mi dico che, con tutto quello che mi è passato davanti, se non avessi avuto il caratteraccio che ho e che mi spinge ad essere così schietto con chi mi sta di fronte, probabilmente avrei qualche euro in più. Purtroppo sono fatto così: mi piace dire sempre quello che penso, questo è il mio pregio ed il mio difetto principale.

Hai anche uno studio?

No, non l’ho mai voluto. Durante la mia vita, con la mia esperienza, ho aiutato tanta gente. Tra questi una persona che si chiama Andrea Benassai, che abita vicino casa mia, e che ha uno studio a Prato, il “Sonoria”. Questo studio è la fotografia di quello che avrei voluto fare io se avessi fatto il manager di uno studio, con un’ottima implementazione tra apparecchi analogici e apparecchi digitali. Quindi se ho bisogno di fare qualcosa vado lì, oppure vado in un altro bellissimo studio di Firenze, il Larione 10, gestito dai fratelli Salaorni. Firenze, pur essendo una città musicalmente ferma – e questo, da buon fiorentino, lo dico con tanta amarezza – ha questi due bei centri che si possono ancora chiamare a pieno titolo studi di registrazione.

Qual è il tuo sogno nel cassetto?

Ti confesso che io ho trovato la mia serenità. Ho sempre portato avanti questa professione rifacendomi alla mia cultura musicale, che reputo all’altezza. Ho poi trovato la mia pace in un piccolo “orticello” che da dieci anni mi dà tantissima soddisfazione. Qui faccio un buon lavoro e ricevo gli input per continuare a migliorarmi e per trovare l’entusiasmo di andare sempre avanti. Questo “orticello” si chiama “Elio e le Storie Tese”. Ho avuto l’onore e la fortuna di conoscere questi straordinari musicisti, con loro sono rimasto e rimarrò finché non mi pensioneranno. È una realtà musicalmente e tecnicamente sempre in evoluzione: come sai siamo i primi e fra i pochi, in Italia, a realizzare gli “istant CD” (cioè il CD con la registrazione della serata in vendita al pubblico già alla fine del concerto, ndr.) Il mio progetto è quello di riuscire a realizzare in tempo reale, per la durata del concerto, con presa audio e video in diretta, un “istant DVD”! Chissà se ci riusciremo? A pensarci bene è un progetto un po’ presuntuoso, però sai... la presunzione qualche volta è la scintilla che fa accendere il motore dell’innovazione.