La Loudspeaker Orchestra al Teatro Rossini

In occasione della cerimonia di apertura del 46° Convegno Nazionale dell’Associazione Italiana di Acustica, arriva a Pesaro la Loudspeaker Orchestra targata L-acoustics.

La Loudspeaker Orchestra al Teatro Rossini

di Michele Viola e Giovanni Seltralia

Dal 29 al 31 maggio, la città di Gioacchino Rossini ha ospitato il 46° Convegno Nazionale dell’Associazione Italiana di Acustica, al quale hanno partecipato oltre 170 esperti di acustica provenienti da tutta Italia e sono state presentate 90 memorie scientifiche. La cerimonia di apertura del convegno si è rivelata un’occasione perfetta per portare al Teatro Rossini un progetto di grande valore accademico nell’ambito dell’acustica applicata: l’installazione in buca di una Loudspeaker Orchestra, un’orchestra di altoparlanti posizionati e pilotati in modo da simulare un’orchestra reale con una buona coerenza spaziale.

A spiegarci i dettagli del progetto, il ricercatore dell’Università di Bologna Dario D’Orazio e il Direttore d’orchestra Jacopo Rivani, al loro secondo “esperimento” con i diffusori L-acoustics.

Da sx: Francesca Monti, studentessa universitaria; Cesare Bertuccioli, tecnico audio per Sound-D-Light; Jacopo Rivani, direttore d’orchestra; Giorgia Paci, soprano; Dario D’Orazio, ricercatore universitario responsabile del progetto; Matteo Cingolani e Michele Santovito, studenti universitari.

Dario D’Orazio - Responsabile del progetto

“Il punto di partenza nella ricerca – spiega D’Orazio – è il superamento della norma tecnica ISO 3382-1:2009, secondo la quale per conoscere il campo acustico all’interno di uno spazio si possono utilizzare delle sorgenti sferiche la cui soluzione tecnologica è il dodecaedro, e posizionandone un paio nello spazio in posizioni asimmetriche e mediando i risultati delle misure, sia possibile ricavare i parametri che raccontano l’acustica della sala. Questi parametri, peraltro, sono stati definiti in epoca analogica: l’indice di chiarezza risale agli anni Cinquanta, il tempo di riverberazione nella sua accezione contemporanea è stato codificato nel ‘65, eccetera… 

“Poi, negli anni Settanta si è iniziato a fare i test soggettivi, tramite le risposte all’impulso elaborate con tecniche numeriche. I primi a eseguire questo tipo di misure sono stati i tedeschi di Göttingen, in particolare il team intorno a Manfred Schroeder. A un certo punto si è capito che questi parametri non bastavano: due teatri con gli stessi parametri di T30 e C50, ad esempio, possono suonare del tutto diversamente. Allora sono state aggiunte le analisi soggettive mediante risposte all’impulso misurate con tecniche binaurali, che hanno fornito nuovi parametri per l’analisi delle sale.

“I consulenti acustici dei progettisti dei teatri internazionali, in questi anni, non hanno portato molto avanti la cosa. Tra i principali c’è il team che in Italia ha collaborato alla progettazione del nuovo teatro del Maggio Fiorentino, o al rifacimento del San Carlo; loro continuano ad usare il dodecaedro, tralasciando alcuni aspetti come la direttività e la spazialità dell’orchestra – che non è omnidirezionale né puntiforme. Tra l’altro, in teatro l’orchestra non si ascolta certo da una distanza infinita, quindi l’approssimazione puntuale dell’orchestra risulta piuttosto grossolana. Con il dodecaedro si riesce a caratterizzare l’acustica del teatro riassumendola in un parametro ricavato da una media, ma niente di più.

“Il gruppo di ricerca finlandese della Aalto University, guidato da Tapio Lokki – continua D’Orazio – ha costruito la prima loudspeaker orchestra. Ha codificato dunque questa prima orchestra usando venticinque diffusori Genelec; questa codifica, che ha dominato la letteratura accademica negli ultimi dieci anni, presenta però dei limiti: ad esempio la catena di misura Genelec è un’esperienza, a oggi, non replicata.

“Insieme a Luca Barbaresi, organizzatore del Convegno, abbiamo coinvolto il service Sound D-light come partner per gli allestimenti tecnici. Poi abbiamo avuto la fortuna del supporto di un distributore come Sisme, con il quale abbiamo già collaborato in altri progetti. Da qui è nata la prima idea di eseguire questo esperimento al Comunale di Bologna, rispettando la codifica originale del gruppo di ricerca finlandese ma usando casse che non fossero monitor near field: grazie alla collaborazione con Sound D-light abbiamo potuto utilizzare dei diffusori L-Acoustics 5XT , e anche degli 8XT e dei 12XT, che hanno una direttività controllata e dimensioni giuste per questo lavoro.

“L’obiettivo dell’installazione di oggi – continua D’Orazio – è un ulteriore passo avanti rispetto all’installazione del Comunale di Bologna, dove la disposizione di alcune sezioni dell’orchestra non risultava forse ottimale. Vorrei capire bene, inoltre, come il bordo della buca generi onde di diffrazione all’interno della cavea: in una buca d’orchestra fatta bene, infatti, la sorgente per il pubblico in platea è di fatto il bordo, perché l’orchestra è praticamente immersa nella buca. Non sempre chi si occupa di acustica ha ben chiara questa cosa: ci sono ovviamente delle riflessioni, sul soffitto e sulle pareti laterali, ma la sorgente principale è il bordo della buca. E l’effetto della forma del bordo è spesso tutt’altro che trascurabile: alcuni anni fa all’interno del teatro Alighieri di Ravenna il Maestro Muti sollevò la questione di rimuovere il riccio, perché secondo lui creava problemi, e aveva ragione, come è poi risultato tra l’altro da misure e simulazioni che abbiamo avuto occasione di eseguire e valutare.

“La prima finalità di queste installazioni è la ricerca, dato che sul teatro italiano c’è davvero pochissimo, in particolare sulla buca che è un’aggiunta posteriore introdotta in Italia dal 1900. Prima l’orchestra si posizionava in platea, il proscenio era molto profondo, e nei libretti d’opera si trovava addirittura indicata la posizione del cantante su questo lungo proscenio, per ‘dare gain’ o meno alla voce. Non solo: le orchestre, che noi spesso immaginiamo cristallizzate nel tempo, sono cambiate tantissimo: nei libri paga del Teatro Alla Scala, ad esempio, si vede che era pieno di violoncelli e violini; considerando che i contrabbassi non avevano la quarta corda, si deduce che l’emissione spettrale dell’orchestra era fortemente sbilanciata rispetto al timbro di oggi: mancavano tutti i medi. I legni spingevano meno di adesso, con meccaniche meno funzionali, quindi erano molti di più. L’organico Wagneriano ha poi ingigantito il suono dell’orchestra nell’opera, quindi la buca è diventata fondamentale per mettere “sotto” i musicisti e in qualche modo attenuarne il suono. I volumi nella buca generano un fenomeno di accoppiamento acustico con la sala, che a sua volta causa due effetti: attenua il volume generale dell’orchestra e rompe le prime riflessioni. Dal punto di vista percettivo, si sfoca l’orchestra mettendo a fuoco il cantante, un fenomeno che Müller mette in relazione con l’avvento del cinema, dove la musica è contorno per gli attori che si muovono in scena.

“L’idea della buca è in realtà abbastanza casuale; è stata dapprima realizzata in Francia, con l’intento di poter spegnere le luci in sala lasciando accesi i faretti per illuminare le partiture dei musicisti; poi Wagner, senza particolari studi, ha pensato di usare questa soluzione.

“Il teatro è bello anche perché cambia nel tempo – ci dice D’Orazio – e spesso il motivo è semplice: i teatri degli anni passati andavano a fuoco spesso, e ogni volta venivano ricostruiti secondo le esigenze della società del tempo. Pensa a questo teatro (il Teatro Rossini di Pesaro – ndr), coi palchetti per la nobiltà, e con ottocento posti in tutto: oggi con ottocento posti non si riesce a ripagare nemmeno una serata di opera.

“I teatri si possono dividere a grandi linee in due tipi: quelli in cui la torre scenica e la sala ‘dialogano’, cioè l’energia fluisce in maniera equilibrata tra il palcoscenico e la platea, e quelli, al contrario, in cui l’energia sonora è più squilibrata e riempie più la scena o più la sala. Questo comportamento può essere descritto in maniera efficace attraverso il concetto di impedenza: nel primo caso i due ambienti si comportano come impedenze ben accoppiate, tra le quali l’energia si distribuisce correttamente, mentre se l’accoppiamento delle due impedenze non è corretto allora l’energia sonora si sposta prevalentemente dalla parte della scena o, in altri casi, dalla parte della sala.

“Come da buona prassi nell’ambito della ricerca accademica, la codifica della nostra orchestra di altoparlanti segue i princìpi dei predecessori, anche se ogni buca è diversa e servono di volta in volta degli adattamenti. Una volta stabilita la griglia di altoparlanti e posizionati questi nella buca, inviamo al sistema le tracce orchestrali registrate singolarmente in camera anecoica, e con queste assestiamo l’orchestra; come hanno fatto i finlandesi, abbiamo voluto affiancarci la figura di un direttore d’orchestra, un maestro che con la sua esperienza è fondamentale per unire le diverse parti in maniera coerente.

“Oggi comunque non facciamo misurazioni, è più una dimostrazione. E a me serve per comprendere meglio alcuni aspetti. Vorrei approfondire la valutazione, ad esempio, dell’influenza del fuoco reale dei diffusori, cioè della distanza dal diffusore alla quale si forma correttamente l’onda, anche per stabilire le differenze tra l’utilizzo di monitor nearfield piuttosto che di diffusori che possono proiettare a distanza maggiore.

“Ciascuna singola parte – conclude D’Orazio – è stata registrata utilizzando un array dodecaedrico, dodici microfoni distribuiti uniformemente su 4π steradianti, cioè su tutta la sfera intorno, in camera anecoica, quindi dispongo di 12 tracce per ciascuno strumento. Poi non utilizziamo necessariamente tutte le tracce, ad esempio oggi utilizziamo solamente quella corrispondente al lobo di emissione principale. L’organizzazione delle tracce è piuttosto complessa, e cambia spesso: oggi, ad esempio, ho dodici primi violini che raggruppo su tre canali, usando Reaper su un MacBook Pro. Ci sono articoli accademici in cui la scalabilità delle sezioni orchestrali è stata studiata in dettaglio.”

Jacopo Rivani - Direttore d’orchestra

“Ho seguito fin dall’inizio la parte artistica del progetto – racconta Rivani – a partire dalla selezione dei brani musicali. Il requisito era che fosse opera lirica italiana, di repertorio, quindi brani conosciuti, e che avessero caratteristiche stilistiche tra loro diverse e con tre tagli vocali differenti: soprano leggero, soprano drammatico e baritono. Infine abbiamo scelto un brano di Donizetti, uno di Verdi e uno di Puccini: abbiamo dovuto saltare Rossini, pur nel suo teatro e nella sua città, perché le difficoltà tecniche di esecuzione in fase di registrazione in camera anecoica erano troppo elevate; per esempio, uniformare le tipologie di colpo d’arco e la velocità dei suoni avrebbe richiesto un lavoro troppo complesso.

“Nella prima fase di registrazione eravamo nei laboratori dell’università di Bologna, in camera anecoica. Ci siamo interrogati, una volta scelto il repertorio, su quale fosse il meccanismo logicamente più adatto per la registrazione. Per prima cosa, ho fatto un video in cui dirigevo un pianoforte che suonava il brano; poi la take video è stata sistemata senza ritardi nella stanza anecoica e, uno strumento alla volta, abbiamo iniziato a registrare: siamo partiti dagli strumenti gravi, che sentivano in cuffia il pianoforte e vedevano me nel video; poi, fatta la prima traccia, abbiamo tolto il pianoforte e iniziato a dare in cuffia gli strumenti che man mano servivano agli altri, dagli strumenti che conducevano le linee del basso, i temi, le armonie principali, fino agli strumenti di ripieno; poi, alla fine, arpa e voci. Per dare l’idea di cosa vuol dire registrare un’orchestra, per registrare sedici tracce di violini il violinista esecutore ha dovuto registrare sedici volte la parte, con l’inevitabile fattore stanchezza, la difficoltà di avere una nota sempre perfetta, eccetera. Chiaramente, non essendo il lato artistico l’unico da considerare, non abbiamo cercato i sedici migliori esecutori della terra, ma abbiamo cercato di registrare in modo reale sedici parti: ogni esecuzione del violinista era diversa, pur con lo stesso violino. Lo stesso per il flautista, il clarinettista, eccetera.

“Io – continua Rivani – dalla cabina di regia, davo loro consigli e indicazioni come se fosse una prova d’orchestra reale, anche se non potevo vederli ma soltanto sentirli e parlare tramite microfono: la principale difficoltà nella concertazione è stata ritrovare la precisione dei punti in cui si deve far suonare lo strumento, per esempio far suonare gli archi tutti alla punta, al tallone, verso la tastiera, verso il ponticello, se il colpo d’arco usa più o meno arco, eccetera. Su O mio babbino caro, se non sbaglio, avendo dodici primi, dieci secondi, eccetera, nelle tantissime sovraregistrazioni i musicisti dovevano stare attenti a suonare sempre nello stesso modo.

“Anche per me, senza impatto visivo, è stata una sfida, ed ero l’unico che poteva rendersi conto delle differenze che avrebbero portato a dei problemi. Per esempio, è successo che dopo le registrazioni abbiamo buttato via una parte di un brano, dove c’era un rallentando che non tornava a dovere.

“Dopodiché, oggi è la seconda volta che montiamo questa Loudspeaker Orchestra, dopo la prima al Teatro Comunale di Bologna. Lì abbiamo affrontato le problematiche reali di bilanciamento: all’inizio mi ero seduto al centro della platea, e man mano quando sentivo poco uno strumento chiedevo di alzarlo; alla fine l’orchestra suonava fortissimo e non tornava niente. Allora ho capito che l’unico modo per bilanciare l’orchestra era tornare ognuno al proprio ruolo naturale: sono andato in buca e ho immaginato di avere davvero l’orchestra davanti, bilanciando da lì e cercando l’equilibrio tra il suono in buca e la voce dal palco. Una volta uscito, tutto funzionava. Questo è il motivo per cui un direttore d’orchestra deve fare il direttore, un esecutore deve fare l’esecutore, l’ingegnere deve fare l’ingegnere; quando poi discutiamo, io presento l’esigenza artistica, Dario quella tecnica e poi cerchiamo il punto di incontro tra le due.

“Io mi diverto molto – aggiunge Rivani – credo di essere un direttore un po’ anomalo, dato che non ho fatto il liceo ma l’istituto tecnico, e ho sempre avuto interesse per questo mondo. Penso poi, dal punto di vista artistico, che sia utile porre molta attenzione alla disposizione dei musicisti, soprattutto nelle diverse buche, un aspetto che a volte viene un po’ trascurato.” 


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