Andi Watson 
e Radiohead

Nell’occasione del concerto dei Radiohead quest’estate a Firenze, abbiamo avuto l’opportunità di parlare a lungo con il rinomato lighting e set designer Andi Watson: della sua carriera, della sua filosofia di lavoro e delle sue creazioni per i Radiohead e altri artisti, passate e presenti.

a-IMG 4250di Douglas Cole

Una notevole reputazione accompagna la band di Thom York: per il seguito “cult”, lo stile sperimentale, l’attenzione al suono e – non meno importante – uno show visivo particolarmente avvolgente. Nel giugno scorso abbiamo avuto il piacere, insieme a 50.000 fan, di assistere al concerto dei Radiohead al Parco Delle Cascine di Firenze, nell’ambito del Firenze Summer Festival 2017. Sotto ogni aspetto, dobbiamo dire, i Radiohead non ci hanno certo deluso.

Nelle ore prima del concerto, però, ficcanasiamo intorno al palco e, data la reputazione della band, rimaniamo un po’ perplessi dal parco luci e video non particolarmente enorme, né ci pare di vedere alcunché di insolito. Ci sono uno schermo in fondo palco di dimensioni moderate – anche se costruito con una forma ellittica e coperto da quello che sembra essere un telo – e una linea di fixture LED a bassa risoluzione dietro la band... il resto del fondale è un semplice telo. I truss delle luci non sono tanti e hanno poche pieghe. Una piccola chicca sono i 24 Claypaky Mythos appesi individualmente su dei motori, ma questa certamente non è una novità. A parte queste cose c’è un po’ di materiale sul floor e pochi tagli. Al FoH troviamo tre enormi proiettori Epson con sorgenti a laser e una console grandMA2 Full (più una spare) circondata da sei schermi aggiuntivi. Il tutto è molto pulito e quasi... semplice. L’unico indizio che mette luce sulla mente dietro questo progetto è una piccola etichetta meme sulla console con scritto “Per essere uno che prende così tante decisioni insensate, credo che dovrei divertirmi di più”.

La persona responsabile per l’esperienza visuale che accompagna le performance live dei Radiohead, da quasi un quarto di secolo, è il lighting e stage designer Andi Watson. Andi è un tipo amichevole e pacato, britannico, con un aspetto ingannevole quanto la semplicità del parco luci di questa produzione (non ci piace fare conti nell’anagrafe di altri, ma ha completato una laurea nel 1985 e a vederlo non si direbbe). È uno dei più quotati designer tra i suoi contemporanei: è stato uno dei più importanti sostenitori delle sorgenti a LED per la loro efficienza – progettando diverse produzioni utilizzando esclusivamente sorgenti a diodo già da un decennio – e non ha mai paura di sperimentare soluzioni high-tech o low-tech per realizzare le sue idee, come la prima applicazione di pixel mapping, oppure il puntamento di laser su specchi attaccati agli altoparlanti. Nel 2009, il premio per il mondo delle luci Knights of Illumination ha creato una nuova categoria proprio per Watson, denominata “Eco-Friendly Tour award” per il suo design per i Radiohead realizzato utilizzando solo LED. I progetti di Watson sono stati soggetto di un libro pubblicato nel 2011, Bulletproof... I Wish I Was: The Lighting & Stage Design of Andi Watson, scritto dal direttore del Museo d’Arte della California State University, Christopher Scoates.

Oltre che per i Radiohead, Andi Watson ha creato show visuali per Oasis, Counting Crows, Dido, Lenny Kravitz, Arctic Monkeys e tanti altri.

Abbiamo incontrato Andi prima dello show a Firenze e abbiamo iniziato una chiacchierata molto interessante, tanto che egli stesso ci ha dato appuntamento a dopo il concerto. Così, come capita di rado, abbiamo avuto l’opportunità di vedere lo show prima di parlare con chi l’ha progettato... e per fortuna: perché non avremmo mai creduto a quello che stavamo per vedere, prodotto di quel disegno “semplice”.

Così, dopo lo show, ci sediamo per una birra con Andi, che graziosamente sacrifica l’aftershow party per chiacchierare con noi.

Cominciamo parlando dello show che abbiamo appena visto.

a img 4070Da quale idea è partita questa produzione?

Inizialmente gli show del 2017 non erano previsti. Il nuovo calendario prevedeva diverse città in cui eravamo già stati, quindi serviva uno spettacolo diverso dal precedente. Personalmente preferisco lo show di quest’anno rispetto a quello dell’anno scorso.

È molto importante, per me, non cadere nella solita soluzione di usare due schermi laterali con I-Mag e uno schermo in fondo al palco con contributi. È importante che qualsiasi video live sia nello stesso piano focale dei musicisti, in modo che il pubblico non debba scegliere se guardare uno o l’altro, ma possa guardare entrambi simultaneamente. Provo sempre, perciò, a usare degli schermi dietro il palco. Una limitazione degli schermi LED in generale è che sono quasi sempre rettangolari – alti e stretti oppure larghi, ma sempre di forma rettilinea. Io, invece, penso che la forma geometrica più bella sia l’ellisse e volevo fare uno schermo video ellittico.

Questo schermo si muove anche durante lo show, verticalmente. L’altezza qui a Firenze è stata leggermente ridotta, per questo lo schermo non si alzava come in altre venue, ma il movimento c’era.

I movimenti durante lo show sono così graduali che si notano solo quando le cose non sono più dove erano. 

Ci sono due motivi per questo: il mio lavoro consiste nel creare ambienti dentro i quali devono vivere i brani individuali. Perciò non è così importante il “viaggio” per arrivare in quell’ambiente, ma l’ambiente stesso. Questo è importante perché questa band ha un repertorio per ogni tour da 80 fino a 110 canzoni, e tutte devono essere programmate. Cambiano la scaletta, anche drasticamente, ogni giorno, e le canzoni possono essere in qualsiasi ordine. Perciò non posso programmare movimenti durante un brano per impostare il successivo, non c’è modo neanche di temporizzare movimenti all’interno delle canzoni: la musica di questa band non è concepita così. Ovviamente non c’è timecode sul palco, neanche un click. Così, fra un brano e l’altro, utilizziamo una scena fissa, una piramide di luce sormontata da una palla specchiata, mentre le movimentazioni si posizionano per il brano successivo, creando il nuovo ambiente. L’unico altro modo per usare le movimentazioni è di farle muovere molto gradualmente durante la canzone: questo succede in diverse canzoni, infatti lo schermo dietro la band si muove di circa due metri!

L’impressione è che la dinamica dello show sia più affidata al video che ai classici fasci di luce in movimento. Un effetto che ricorda i vecchi filmati psichedelici dei Whitney Brothers o pre-psichedelici di Len Lye o Walther Ruttmann. Strati sopra strati di immagini...

Un aspetto molto importante dei Radiohead è che la musica è composta di strati su strati. Questo è uno dei motivi per cui lo show è ideato così e mi fa piacere che tu abbia percepito questa cosa. L’idea è che alcuni degli “strati” coincidono con degli strumenti o con dei componenti della band. È un collegamento sinestesico tra l’audio e il visuale. Il punto non è creare qualcosa di “spettacolare”, quello è facile, chiunque può prendere un parco di teste mobili e strobo e creare grandi scene e chase. L’idea qui è di creare un ambiente visivo armonioso e olistico dentro il quale la canzone possa svolgersi.

Ci sono altri artisti che hanno contributi praticamente narrativi, ma per i Radiohead cerco sempre di evitare il narrativo. Per questo, i contributi sono generalmente composti di riprese dal vivo, riprese che vengono irretite, sovrapposte, sovraesposte e contrastate per creare delle texture.

Stai usando questo effetto “occhio composto” per creare la forma ellittica, utilizzando i segnali delle varie telecamere: quante telecamere vengono mischiate per creare questo effetto? 

Abbiamo 13 camere… 12 ai lati e sul floor, più una molto piccola sul pianoforte, per riprendere Thom in primissimo piano… anche solo il suo occhio.

C’è qualcuno al palco che fa la regia e il mix delle telecamere? 

No, faccio io direttamente dal FoH; ci sono quattro operatori, diretti da me, che controllano le camere. Poi i segnali delle camere arrivano direttamente a me, nei Catalyst.

Io mi fido della band per creare la dinamica; cerco di ottenere immagini diverse dai soliti I-Mag: il modo facile e normale della regia in un concerto è di seguire i punti d’interesse primari – un’inquadratura della chitarra durante un fill o un assolo di chitarra, oppure un primissimo piano che segue la mano, o il cantante che si esprime davanti al microfono –; noi, invece, cerchiamo di aggiungere una qualità astratta, anziché da reportage. Magari inquadriamo fissa una zona del manico della chitarra, così che la mano o, addirittura, la chitarra stessa entra ed esca dal frame; oppure inquadriamo il microfono senza nessuno che canti, con il musicista che forma uno sfondo in movimento. Tutto per permettere ai musicisti di creare loro stessi il visual del concerto. 

Ci sono diversi layer sugli schermi... grafiche, mix delle camere dai proiettori e video low res?

A dire il vero, ci sono più di 240 layer di video. Abbiamo quattro Catalyst, con 50 o 60 layer di video ognuno. Ognuno ha 32 layer di camere, poi layer sopra, sotto e in mezzo di quelle stesse telecamere. Io generalmente metto un layer di base, poi un layer di camere, poi un altro layer di grafiche o effetti, poi un altro layer di telecamere e un layer sopra di contributi. Rimango con una profondità di circa cinque layer ma, volendo, potrei andare fino a circa 60 layer. In una canzone, infatti, c’è un’immagine unica che scorre velocemente tra i membri della band... quella è profonda 60 layer di video.

Hai un modo molto interessante di lavorare dal vivo: le luci diventano più o meno statiche e lavori molto con i crossfade video a tempo con la musica!

È raro che io possa semplicemente premere “go”. La band suona in modo diverso ogni sera, inventa le cose lì per lì, cambia le cose strada facendo, prende tempi diversi nelle canzoni. Poi, in diverse venue, certi strumenti vengono più avanti nel mix, io devo stare sempre sui controlli dei livelli dei layer e delle luci. Poi ci sono delle altre considerazioni: stasera c’erano più di 50.000 persone, più o meno posizionate in una linea dritta davanti al palco. Per questo, ho dato indicazioni agli operatori delle telecamere di fare inquadrature un po’ meno astratte, e ho dato più enfasi ai layer delle riprese invece di quelli grafici, per dare più effetto I-Mag al pubblico distante, dando inoltre molta più intensità all’illuminazione del pubblico, per lo stesso motivo.

Ci puoi raccontare un po’ del parco luci... i proiettori? 

Con Radiohead cerchiamo di usare al massimo i proiettori a LED o comunque efficienti a livello di assorbimento. Infatti ci sono i VersaTube e lo schermo LED. Questo design richiedeva delle testemobili, profile o spot, da appendere sopra il palco sui motori e ho cercato un modello a LED. Ho valutato alcuni prototipi in teoria adatti allo scopo, ma non ancora pronti, così ho deciso di utilizzare un proiettore molto versatile ed efficiente con lampada a scarica: il Mythos di Clay Paky.

Poi ci sono dei GLP X4L, un proiettore che mi piace moltissimo, per il colore, il fascio che produce e il pixelmapping. Ha una texture nel fascio che riesce a mantenere per tutta la gittata del proiettore.

Uso poi i Martin MAC 101CT ai lati per fare dei tagli bianchi, e ci sono degli X4 Bar, uno davanti e uno dietro ogni componente della band. Infine abbiamo dei Q7 strobo, usati sia come wash sia come strobo.

Poi c’è lo schermo ellittico...

Abbiamo dovuto cercare un prodotto molto specifico per quello... con passo di 11 mm, che va benissimo per le grafiche, e soprattutto curvabile; infine, ovviamente, ci voleva un prodotto con moduli individuali piccoli, per poter creare la forma ellittica.

Abbiamo rimosso la superficie anteriore dei moduli individuali – togliendo 110.000 viti – abbiamo verniciato le coperture frontali di argento e applicato dei brillantini; dopodiché abbiamo riavvitato le coperture – sempre 110.000 viti. Dopo questo lavoro, l’effetto della superficie, quando viene illuminata frontalmente, è davvero molto particolare; con le proiezioni brilla poi in un modo molto interessante... aggiunge una sgranatura simile a quella delle immagini su pellicola.

Per il controllo?

Ho una singola grandMA2 Full Size... con una seconda in tracking. Il crew chief per Neg Earth è il mio assistente, Rob, usa quella solo per controllare il fumo e le ventole... perché io ho finito le mani. Il tutto viaggia su un sistema standard Neg Earth in fibra ottica Luminex.

E quanti universi di controllo sono? 

Bella domanda! Ci sono oltre 200 strati di Catalyst, per 40 canali ognuno... più tutti gli X4L gestiti in modalità pixelmap – per 169 canali ognuno – diciamo tanti...

I contributi li crei tu? 

Da tanti anni ho un collaboratore, Pip Rhodes, che lavora sui contributi. Negli anni abbiamo creato una specie di catalogo “Radiohead”, che teniamo come archivio – come ho detto prima, il repertorio è immenso –. Spesso per le stesse canzoni utilizzo contributi da tour precedenti, anche se mappati su superfici completamente diverse.

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Lenny Kravitz, “LLR 20(09) Tour”, Cattolica, 2009.

La band ha una vera cult-following: i fan si aspettano alcune cose familiari anche quando lo show è completamente nuovo? 

Un po’, sì. Ma conservo e riutilizzo i contributi perché non sento mai il bisogno di cambiare qualcosa deliberatamente. Quando chiudo gli occhi e ascolto una canzone, quella canzone ha un certo colore, una certa texture, una certa dinamica. Quando Radiohead fa un nuovo tour, queste cose non cambiano, perché non hanno cambiato la canzone. Di nuovo, le tecnologie e il palco possono essere completamente diversi da un tour all’altro, ma quello che succede durante un brano ha sempre una sua costanza. 

Alcuni miei colleghi si sentono obbligati a cambiare le cose sui brani, da una tournée all’altra. Per me, invece, quando una canzone è rossa nella mia testa... farla blu sarebbe sbagliato.

Ti piacciono molto i VersaTube, mi sembra... ne abbiamo visto un muro intero dietro Lenny Kravitz qualche anno fa...

Li adoro. Danno proprio l’impressione di essere un pezzo fisico di luce... questo lo trovo proprio magico. 

In alcuni dei tour precedenti con Radiohead, hai creato proprio degli spazi tridimensionali con contributi in bassa risoluzione; qui, invece, hai fatto una cosa un po’ diversa: forse perché è una produzione outdoor?

Beh, ogni tour è diverso dall’altro, ma effettivamente siamo stati dei pionieri del pixel mapping dal 2003. Per Hail to the Thief, stavo per creare letteralmente migliaia di gruppi DMX per controllare e programmare dei PixelLine come effetti grafici. Mentre lavoravo su quel design, per caso ho cenato con Richard Bleasdale, lo sviluppatore del software Catalyst. Quando ho spiegato quello che stavo facendo, Richard ha suggerito che avrebbe potuto scrivere un plugin per Catalyst con il quale poter mappare dei pixel individuali da un’uscita video sui parametri DMX per R, G e B dei PixelLine. Che sappia io, nessuno aveva mai fatto una cosa del genere nel 2003.

Così Richard mi ha scritto questo plugin e l’ha chiamato “PixelMAD”, che è poi stato integrato in Catalyst. Quando l’abbiamo provato per la prima volta con i proiettori, noi, compreso Richard, siamo rimasti stupiti. Abbiamo passato dei semplici grafici sui PixelLine e abbiamo visto un mondo di possibilità. Anche con linee di soli 24 PixelLine spaziate di circa 60 cm una dall’altra, l’effetto era incredibile: la risoluzione era molto bassa e con dei vuoti tra le linee di proiettori, ma il cervello dell’osservatore riempiva i buchi.

Non solo mi ha risparmiato un’infinità di lavoro su quella produzione, e ha consentito di stupire il pubblico dei Radiohead, ma abbiamo proprio creato una cosa nuova e mai vista.

Visto la piega che ha preso la conversazione, continuiamo chiedendo ad Andi di parlarci della sua carriera, perché crediamo che il suo racconto sia davvero interessante... 

Qual è stata la tua formazione?

Ho una laurea in ingegneria. Praticamente uso continuamente tutto quello che ho studiato! Teoria elettrica, entropia dell’universo, termodinamica, statica... insieme ad una concentrazione di elettronica e software. Perciò, il concetto di rigging e di far stare tutta questa roba in quota ha perfettamente senso per me; anche le cariche elettriche, la fisica dell’illuminazione e il comportamento della luce. Secondo me ingegneria è una formazione perfetta per questo mestiere, perché palco, struttura, movimentazioni, luce e video sono un’entità olistica. 

Com’è avvenuto il passaggio da ingegnere a visual designer?

Ho completato la laurea all’università di Sussex con una valutazione piuttosto elevata e ho cominciato a cercare lavoro. Ho ricevuto abbastanza rapidamente diverse proposte piuttosto remunerative, quasi tutte nell’industria della difesa da costruttori di sistemi missilistici in Europa e negli Stati Uniti. Non avevo però molto interesse nel progettare armi. Mentre facevo l’università, lavoravo facendo, più che altro, facchinaggio per i concerti nelle piccole venue, lavorando saltuariamente con le luci per un service londinese.

Ho poi fatto un colloquio presso Vari*Lite, a Londra, quando era ancora un costruttore/service. Mi hanno assunto come tecnico per il, all’epoca nuovo, sistema Serie 200. È stato un momento di serendipità, perché il mio progetto di tesi era un computer basato sul processore Motorola 68000, e la Serie 200 (VL2, VL3 e Artisan) era basata sullo stesso processore. Generalmente tenevano i tecnici in sede per un anno o 18 mesi, invece io, dopo circa sei settimane, mi sono ritrovato a fare il crew chief sulla tournée di Prince, Sign o’ the Times.

Lavorando in Vari*Lite, ho cominciato a programmare ed usare le console. Ho fatto i primi show in Europa con la Serie 200, un’esperienza non proprio eccitante: eventi corporate per una banca. Dopo quella tournée come crew chief, ho cominciato a fare il programmatore e l’operatore per altri show – INXS, The Cure ed altri – ho programmato per LeRoy Bennett, Patrick Woodroffe e altri designer rinomati, seguendo anche diversi tour per loro conto. Ho imparato molto, ovviamente, da quelle esperienze, ma è frustrante realizzare le visioni di altri, facendo il possibile per soddisfare il designer, ma sapendo che io avrei fatto diversamente... non meglio o peggio, ma diversamente.

Dopo un po’ non mi sembrava più un lavoro adatto a me, così ho lasciato tutto per intraprendere la carriera di designer freelance. Per un po’ ho lavorato per tante band diverse, tra cui un gruppo irlandese, The Frank and Walters. In una tournée di questo gruppo – un tour nei pub e nelle università, con una partecipazione media di 50 persone a serata – il gruppo di spalla era... Radiohead. Quando il loro luciaio è andato a fare altre cose, mi hanno chiesto di lavorare con loro. Questo avveniva nel 1993. Per loro ho fatto più o meno tutto da quel momento.

Mi sorprende che tu provenga da una formazione in ingegneria; in un’intervista di qualche tempo fa hai detto di essere stato influenzato da Svoboda: queste sembrano più parole di uno che arrivi dal teatro e da architettura... 

È il mio eroe! Per me la luce è una cosa magica. È invisibile, ma si sa che c’è solo perché le cose vengono illuminate; il colore non esiste, è solo un’idea nella testa dell'osservatore! Tutte queste cose rendono la luce magica, per me. Quando ho cominciato a lavorare con le luci e ho letto di Svoboda, è stato proprio il mio lato da ingegnere ad esserne affascinato. L’obiettivo di Svoboda era proprio quello di cambiare il modo in cui veniva percepita la funzione della luci. La creazione di fasci visibili, le “tende” di luce, gli “oggetti” formati di luce. Il fatto che si possano inclinare i proiettori con un certo angolo e che gli oggetti dietro i fasci vengano oscurati dalla luce. Dietro quelle idee ci sono proprio dei principi di fisica... il concetto non più complesso dell’arcobaleno. Svoboda era proprio un genio. Rimango in soggezione per le cose che ha inventato. Se guardi La Lanterna Magica adesso, il suo lavoro è ancora assolutamente rilevante. Le cose create 60 anni fa sembrano ancora pezzi multimediali innovativi. 

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Radiohead, “In Rainbows Tour”, 2008. (foto: Ed Jackson).

Rispetto ai tuoi colleghi contemporanei come ti posizioni in termini artistici o stilistici?

Chiaramente bisogna avere rispetto per il lavoro dei colleghi, perché è arte. Ognuno di noi sta facendo semplicemente quello che pensa sia corretto... non si possono fare confronti diretti.

Ci sono, però, delle cose frustranti per me, ed è sicuramente lo stesso per i miei colleghi che stanno portando delle vere idee originali. Per la tournée In Rainbows, nel 2008, abbiamo sospeso delle colonne di VersaTube in una matrice orizzontale sopra il palco e giù tra i musicisti, usando il pixel mapping per creare una specie di schermo video tridimensionale. Nessuno aveva mai fatto una cosa del genere... entro un anno, però, c’erano una trentina di concerti che hanno usato quel concetto. È molto frustrante quando altri designer fanno queste cose... anche se, in molti casi, sono stati obbligati dal cliente.

Un buon designer non vuole copiare altri, anche se, in qualche modo, da uno spettacolo di un collega si porta via sempre qualche idea... ma la differenza sta nel vedere i dettagli del lavoro degli altri e porsi la domanda “ma se si facesse così, anziché cosà?”.

Come valuti i progressi della tecnologia degli ultimi anni? 

Chiaramente il progresso dei LED degli ultimi 15 anni è importantissimo. Il tipo di colore ed i colori puri che si riescono creare, la possibilità di mettere luci potenti vicine agli artisti senza provocare incendi... tutte queste cose hanno creato delle possibilità incredibili che ancora stiamo scoprendo.

Anche l’informatizzazione e l’integrazione di video e luci hanno creato delle possibilità nuove. basta guardare le possibilità che una piccola innovazione di semplice software, come il pixelmapping, può portare.

Io disegno gli show dalle cose che vedo quando chiudo gli occhi e ascolto le canzoni; nella mia testa non devo pensare a gravità o cablaggi. Così, non faccio mai un disegno basato su un nuovo pezzo di tecnologia. Ci sono dei designer che scoprono un nuovo proiettore e decidono subito di metterne cento in un nuovo design... indipendentemente per chi o per quale musica. Può essere anche stupendo, ma non è proprio quello che voglio fare io. Se una nuova tecnologia esce e mi presenta una soluzione per qualcosa che ho in testa, allora è grande, ma non mi metto a creare intorno a nuove cose semplicemente per avere l’ultimo proiettore nella lista di materiale.

D’altra parte, non mi piace fare qualcosa finché non sia possibile farla nel modo giusto. A volte questo vuole dire che qualcun altro arriva a realizzare un’idea per primo. Per lo show di In Rainbows, infatti, ho avuto l’idea subito dopo la prima applicazione del pixelmapping, ma ho aspettato cinque o sei anni per usarla. Questo perché l’originale VersaTube non era proprio un granché in termini di colore o intensità. Solo quando è uscito il VersaTube HD ho trovato la purezza di colore e la risoluzione che volevo avere per creare quella produzione. A volte per poter fare quello che si ha in testa si deve aspettare che la tecnologia sia matura.

Cosa faresti, professionalmente parlando, se fosse possibile?

A me piacerebbe poter controllare proprio la luce. La console luci chiaramente è una bella invenzione, ma continuo a percepirla come un impedimento tra me e quello che succede. Penso la stessa cosa dei proiettori: come designer si vuole luce infinitamente potente, si vuole poter piegare la luce, si vuole poter far finire la luce due metri prima che arrivi a qualcosa.

Faccio letture per le università, ogni tanto, e questo è un tema ricorrente nei miei discorsi: per me, e probabilmente per gran parte delle persone che fanno questo lavoro, l’ideale sarebbe di poter far a meno delle sorgenti e semplicemente poter alterare la luminosità, l’opacità e il colore dell’aria stessa.

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