Chapeau: monsieur Marco Monforte

Diversi anni fa, al primo pezzo mixato da questo giovane dall’accento curioso, c’eravamo già accorti che sotto c’era molta sostanza...

di Giancarlo Messina

“Ingegnere del suono” viene spesso definito il fonico, con un calco dall’inglese “sound engineer”, dove però il termine indica il “tecnico addetto al suono” (tanto che, ad esempio, “sanitation engineer” significa semplicemente spazzino!) e non necessariamente un vero e proprio “ingegnere” come l’intendiamo noi italiani, cioè un laureato in ingegneria. E, a nostra saputa, nessuno fra i nostri migliori professionisti, peraltro bravissimi, può fregiarsi di questo titolo di studio, semmai di una grande esperienza, maturata sul campo di battaglia, e di studi personali. Anche perché, in Italia, un indirizzo universitario specifico e professionalizzante non esiste nemmeno.

Fa eccezione l’ingegner Marco Monforte, nato e cresciuto in Belgio, da genitori italiani, che dai 17 ai 22 si è laureato all’Università di Lovanio in Ingegneria, specializzandosi proprio in “IAD”, cioè “Arti di diffusione”, un indirizzo di laurea rivolto proprio al suono ed alla sua gestione.

Dobbiamo dire, senza falsa modestia, che diversi anni fa, al primo pezzo mixato da questo giovane dall’accento curioso, c’eravamo già accorti che sotto c’era molta sostanza, e lo avevamo già salutato sulle nostre pagine come una delle realtà più promettenti fra i giovani fonici. Ed evidentemente non eravamo gli unici ad accorgercene, visto che in questi ultimi anni Marco ha lavorato in importantissimi tour, diventando uno dei professionisti più richiesti dal mercato. E non poteva essere diversamente, perché nonostante la giovane età, Marco sa unire alla preparazione tecnica ed alla sensibilità artistica, non comuni doti relazionali basati su cortesia, modestia e simpatia.

A bordo della sua fiammante motocicletta, da Bologna, città in cui vive, è venuto a trovarci nella nostra redazione balneare di Gabicce, per mangiare un po’ di pesce fresco e per fare due chiacchiere in tranquillità. Situazione adatta, merito anche del trebbiano, per farci raccontare tutto di lui...

Marco, è vero che pensi in francese e parli in italiano?

Sì, ma sempre di meno... da un po’ addirittura sogno anche in italiano!

Com’era impostato il corso di studi nella tua facoltà?

Innanzitutto c’erano dei test di ingresso molto selettivi, per eliminare tutti gli studenti a cui piaceva solo l’idea ma non avevano la reale motivazione; il primo biennio era terribile, perché occorreva sostenere tutti gli esami generali di ingegneria vera e propria, e di audio nemmeno si parlava. Solo finito il biennio si poteva scegliere l’indirizzo specifico fra i vari rami possibili: cinema, musica, acustica generale, etc. Si iniziavano a studiare argomenti tecnici molto specifici, legati ovviamente all’acustica, e contemporaneamente era possibile lavorare, all’interno dell’università, su banchi SSL, Amek, etc, dei quali era obbligatorio conoscere ogni particolare tecnico costruttivo ed operativo. Il sistema di studio è molto diverso, non esiste il “fuoricorso”, nel senso che lì o dai gli esami o sei fuori. Così mi sono laureato a 22 anni.

Ma Marco capisce presto che, nell’ambiente della musica, della sua laurea non importava niente a nessuno; per fortuna, guidato da una grande passione per la musica, aveva, già durante gli studi universitari, lavorato come assistente in diversi studi belgi, curando un po’ di tutto, dal restauro di vecchi vinili fino alle session notturne di registrazione di musica africana; inoltre, aveva maturato esperienze dal vivo, collaborando per diversi grossi service come Art System ed EML in occasione di numerosi tour Europei.

Com’è avvenuto lo sbarco in Italia?

Volevo fortemente fare un’esperienza in Italia. Nel ’97 lavoravo per un service belga e fui mandato a montare un PA EAW per una data di Jovanotti a Bruxelles. In quest’occasione conobbi quello che reputo il mio mentore, cioè Maurizio Maggi, che prima avevo già conosciuto sui miei libri per un progetto sull’olofonia. Gli chiesi di poter lavorare accanto a lui: un professionista di livello internazionale che giudico una grandissima persona sotto tutti i punti di vista, dalle capacità professionali alla modestia. Così un capodanno del 2000 facemmo una diretta televisiva di Zucchero, poi la trasmissione “Teatro18” – dove conobbi il mio super “papà” Tony Soddu – con cui facevo l’assistente nello studio mobile ai vari fonici. Fra essi arrivò anche Red Talami, che avevo già conosciuto e assistito in occasione di diversi festival in Belgio, che mi chiese di sostituirlo per una data estiva dei Litfiba; altri momenti importanti sono stati l’incontro con Klaus Hausherr e Fabio Carmassi; in seguito ho lavorato con Maurizio in tour con Ramazzotti, dove ho conosciuto Giorgio Ioan che mi ha proposto il tour di Pezzali: insomma iniziavano le mie prime possibilità come fonico di sala. Sempre grazie a Maurizio ho avuto la possibilità di mixare una data di Elisa: ne nacque un bel rapporto che mi portò alla bellissima tournée Lotus. Poi ricordo quanto Bicio Marchi abbia creduto in me, aiutandomi ad emergere ed introducendomi nel “clan” Pausini, il cui “patron”, Fabrizio Pausini, puntando tutto su di me, ha permesso che giungessi alla pienezza della mia professionalità.

Insomma non vivevi ancora in Italia ed eri già entrato nel mondo del live dall’ingresso principale!

Sì, vivevo in Belgio, ma mi sono innamorato in Italia... così ho preso casa a Bologna, ed adesso sono molto felice di vivere qui e lavoro pochissimo in Belgio.

Quali differenze hai notato fra i due mondi?

Come organizzazione, orari, ruoli, in Belgio è molto meglio: questo è un lavoro riconosciuto dalla legge e dalla società. Ma preferisco lavorare in Italia: io in tour mi diverto anche, la gente sa vivere, lavora con passione, mentre all’estero vivi solo del mondo delle tournée. Un tour internazionale dietro l’altro, come fanno molti professionisti stranieri, vuol dire non avere famiglia ma solo tanti tatuaggi; questo è un lavoro che rischia di trasformarti in un perdente, perché se per 10 mesi all’anno parli solo di line-array e mixer in un bus, quando torni a casa sei un perdente, un disadattato. In Italia questo è molto raro, c’è tanta gente sana, che ha moglie e figli ed una vita “quasi” normale fatta anche di altre priorità che non siano i tour: nonostante tutte le varie problematiche l’ambiente italiano è insomma quello che preferisco. Poi è chiaro che in Belgio questo lavoro esiste dal 1950 e il metodo per fare il line check è sempre lo stesso e lo si esegue oggi sempre nella stessa maniera da allora, mentre qui è tutto più free style, ognuno fa e pensa a modo suo e in più ognuno pensa di avere ragione e di essere il più bravo!; nonostante questo gli italiani sono realmente i tecnici più bravi, dai fonici ai rigger ai lighting designer: l’unica vera differenza con i colleghi anglo-americani è che associare il proprio nome a U2, Muse o Coldplay dà, a livello mondiale, tutt’altra visibilità! Per altro ho sempre sostenuto che se chiami e raduni i migliori tecnici italiani per un tour, e ce ne sono tantissimi, puoi contare sui migliori al mondo.

Recentemente sei stato impegnato in eventi importanti: il tour di Tiziano Ferro, quello di Irene Grandi e, soprattutto, la tournée negli USA ed il grande concerto di Sansiro con Laura Pausini. Come sei maturato grazie a queste esperienze?

Sarò sincero: prima credevo che saper fare un bel mix di un concerto fosse la cosa più importante, adesso ho capito, ahimé, che non è solo quello! Ho capito che chi fa il nostro lavoro deve soprattutto avere un ottimo rapporto con tutti, specie col management dell’artista e con la produzione: è importante dare risultati ma ancora di più sicurezza. Quando sei responsabile tecnico e lavori per una produzione, capisci che il management ha mille preoccupazioni e tu devi risolvere quelle tecniche: subisci grandi pressioni, hai grandi responsabilità, ma il concetto di fondo è che per loro non devi creare problemi, ma risolverli. Non interessa loro come fai e che insert usi sul basso, ma il tuo atteggiamento e, ovviamente, il risultato. Inoltre è fondamentale essere capaci di tradurre per l’artista il linguaggio e le esigenze tecniche in un modo a lui chiaro.

Infine è importante destreggiarsi fra le esigenze artistiche e quelle tecniche, cercando di conciliarle, di trovare sempre un punto di convergenza, affinché tutti siano soddisfatti. Insomma sono esperienze che fanno crescere molto, professionalmente ed umanamente.

Progetti?

Oltre a pagare il mutuo della casa che ho acquistato, vorrei trovare nuovi stimoli professionali e personali.

Qual è il sogno nel cassetto di Marco Monforte?

Non è un obiettivo solo professionale: mi piacerebbe trovare quel famoso equilibrio fra il lavoro e la sfera privata di cui parlavamo prima… e, mentre lo sto cercando, fare un tour con i Nine Inch Nails!

contatti: Marco Monforte