Solo con 
Django

Francesco Buzzurro.

Solo con 
Django

di Giancarlo Messina

Come i nostri attenti lettori sanno, solo saltuariamente recensiamo delle uscite discografiche. Lo facciamo quando ci pare di scorgere dei lavori realmente interessanti che si distinguono dal main stream per qualche valido motivo. Come in questo caso. Ad essere precisi ciò che mi spinge a scrivere di questo disco è principalmente la stizza. La stizza di trovarci di fronte ad un fenomeno di spessore artistico mondiale, conosciuto sì dal pubblico, ma meno di quanto dovrebbe. Io stesso, che pure scrivo di musica live da 25 anni, ho imparato a conoscerne ed apprezzarne l’arte solo da un paio d’anni. Parliamo di Francesco Buzzurro, chitarrista siciliano il cui virtuosismo lascia attoniti ed entusiasti allo stesso tempo.

Francesco è oggi titolare della cattedra di Chitarra Jazz presso il Conservatorio di Salerno ed ha alle spalle una serie di titoli rilevanti, come musicista, compositore e come uomo: diploma in chitarra classica, laurea in Musica Jazz e anche una laurea in Lingue straniere. Ha in curriculum centinaia di concerti importanti, molti all’estero, e collaborazioni di prestigio con artisti di fama internazionale.

Quello che caratterizza la sua musica è proprio la capacità di fondere, come mai avevamo sentito prima, una perfetta tecnica classica con la musica moderna, dal jazz alla musica brasiliana, passando per la musica popolare e tradizionale che Francesco non disdegna affatto. Ne scaturisce un pastiche linguistico originalissimo, uno stile unico e anche difficilmente imitabile, perché tecnicamente del tutto inarrivabile ai più. Che la chitarra venga suonata come una piccola orchestra non è certo un approccio nuovo allo strumento, ma raramente lo abbiamo visto realizzato con questa maestria. Tanto che la domanda più frequente che sento porgere a Buzzurro a commento dei suoi brani è “ma quante dita hai”?

Ma attenzione: se il suo virtuosismo è senza dubbio l’aspetto che per primo impressiona e afferra l’attenzione dell’ascoltatore, non si pensi che si stia parlando di un freddo esecutore. L’aspetto tecnico in Francesco rimane sempre un mezzo e mai un fine, come un’enorme tavolozza di colore indispensabile per esprimere ogni sfumatura di quelle emozioni che il musicista trasmette e l’ascoltatore fa sue. Non a caso, ciò che davvero stupisce in Buzzurro è la sua capacità di intrattenere – nel senso letterale di “tenere legato a sé” –  per ore e con una sola chitarra un pubblico variegato, composto da gente qualunque, che percepisce la magia della sua musica al di là di ogni considerazione tecnica.

Questa ultima sfida di Francesco ha del folle: affrontare in un disco chitarra-solo uno dei più osannati chitarristi della storia, Django Reinhardt, l’iniziatore di quel genere manouche ancora adesso quanto mai di moda; idea folle perché, in effetti, Django da solo non ha mai suonato: lo ha sempre fatto in formazione, minimo con tanto di contrabbasso e altre chitarre. Era umanamente possibile ricreare dignitosamente con una sola chitarra il mood di una musica piuttosto complicata armonicamente, che ha per di più nell’aspetto ritmico un fattore di assoluta importanza? Io avrei risposto di no, almeno prima di ascoltare i brani del nuovo disco di Buzzurro: melodie, linee di basso e armonie sono così distinguibili e presenti che sembra di trovarsi di fronte ad un trio (di musicisti bravi). Niente viene sacrificato: ritmo, armonizzazioni e melodie zigane si incastrano in maniera stupefacente. Dirò di più: Francesco, pescando da quella immensa tavolozza cui accennavamo prima, supera gli stilemi del manouche, aggiungendo, con gusto e pennellate rare ma sapienti, colori che sanno di musica classica, di blues, di bossa, di swing, di flamenco… creando qualcosa di nuovo: un “manouche alla Buzzurro”!

Francesco, tu hai un repertorio sterminato: come nasce l’idea di dedicare un disco solista a Django?

Il disco nasce dalla mie frequentazioni giovanili: studiavo classica ma ascoltavo incantato Joe Pass, Paco de Lucia, Baden Powell… e ovviamente Django: stavo ore dietro i suoi dischi cercando di riprodurre con la chitarra quelle sonorità, ma ho sempre detto a me stesso che era impossibile replicare quel groove con uno strumento solista. Il desiderio di dedicargli un tributo mi è sempre rimasto, finché ho deciso di lanciarmi in questa avventura. La sfida è quella di trasporre sulla chitarra solista la musica di Django senza farle perdere freschezza: ho lavorato per mesi, cercando i pezzi che meglio si adattavano alla chitarra solista, studiando per affrontarli e arrangiarli al meglio.

Inoltre il personaggio di Django mi ha sempre affascinato anche al di là della musica, un po’ maudit e libertino, reso ancora più incredibile dal fatto che suonava usando solo due dita della mano sinistra a causa del suo handicap: per me ragazzo di buona famiglia era davvero un’attrazione irresistibile.

Nel disco ovviamente c’è anche Tiger Rag, un omaggio a Nick La Rocca, siciliano emigrato in America che incise il primo disco di jazz della storia, un brano molto suonato e amato proprio da Django.

So che le prevendite del disco stanno andando oltre ogni rosea previsione: chi lo compra? Da chi è composto il tuo pubblico?

Guarda… quasi con stupore devo dirti che il mio pubblico va dalla casalinga all’avvocato, dall’elettricista al professore universitario! Col tempo mi sono accorto di fare una musica trasversale. Credo perché c’è un approccio allo strumento virtuosistico ma anche giocoso e melodico. Qualsiasi tipo di ascoltatore si ritrova in quello che suono, perché col tempo ho imparato a mediare fra composizioni originali e brani molto noti ma sempre arrangiati in chiave personale, senza mai fare pianobar. Pensa che quando ho suonato in RAI Libertango di Piazzolla, la SIAE mi ha riconosciuto i 22/24 dell’arrangiamento, come se fosse un altro brano! È un pubblico vario anche in età, perché molti giovanissimi e addirittura i bambini rimangono calamitati da questo modo di suonare la chitarra. Ho sempre visto il pubblico come un alleato da coinvolgere con un repertorio vario e piacevole. Concetto che cerco di inculcare anche ai miei allievi in conservatorio: solo un 10% del pubblico è composto da addetti ai lavori, bisogna arrivare alla gente, all’altro 90%.

Quanto il virtuosismo è un’arma per calamitare il pubblico e quando può diventare pericoloso per l’espressione artistica?

Per me la cosa più importante rimane sempre la melodia, nel mio fraseggio cerco sempre di costruire un discorso, di dire qualcosa al pubblico, e nel repertorio non mancano mai le ballad. L’abilità tecnica certamente colpisce e attira subito il pubblico, ma poi bisogna saper dare altro.

Sono convinto che un musicista fenomenale come te, e lo affermo senza remore, dovrebbe essere noto al grande pubblico al pari di una rock star, come lo sono stati Segovia o Paco De Lucia: cosa manca per fare questo salto?

Noi viviamo in una società governata dai media e in gran parte ancora dalla televisione, per cui se non si passa da lì è difficile arrivare al grande pubblico. Ma ovviamente la televisione insegue l’Auditel e nessun canale nazionale propone ad orari decenti musica di qualità, al massimo si sente musica pop nei talent show, oppure imperano Barbara D’Urso e Grandi Fratelli vari. È uno specchio della situazione culturale attuale del nostro paese.

Ma esiste un mondo al di fuori della televisione: con il mio manager, Alfredo Lo Faro, abbiamo costruito un rapporto molto solido che mi permette di dedicarmi solo alla mia musica, mentre lui cura tutto il resto, soprattutto la mia attività concertistica che, Covid a parte, mi porta in giro per il mondo per almeno 100-120 concerti all’anno: suono in Russia, America, Giappone, Germania, Francia, perfino alle Isole Cayman e in tanti altri posti. Devo essere però sincero: mi pesa un po’ che in Italia, nei grandi festival blasonati, girino sempre gli stessi nomi, perché abbiamo tanti altri musicisti validi.

Durante il lock-down hai tenuto due concerti in live-streaming che hanno avuto migliaia di ascoltatori, che esperienza è stata?

Un’esperienza surreale: suonare da solo in salotto senza il feedback del pubblico è stato disarmante, solo dopo due o tre brani ho iniziato a scaldarmi un po’, ma è difficile parlare quando nessuno ti risponde! Il pubblico però è stato entusiasta, me ne sono accorto dopo, rileggendo i tantissimi commenti. Direi senza meno che non vedo l’ora di tornare a suonare fra la gente al più presto!

Come avete registrato il disco?

Abbiamo registrato a Palermo nello studio Cantieri 51 di Riccardo Piparo. All’inizio abbiamo posizionato otto microfoni per riprendere la mia amata chitarra classica Scandurra del 1983, strumento che amo come una persona di famiglia. Alla fine in mixaggio abbiamo utilizzato per il 60% uno Schoeps MK4 e per il 20% un Telefunken ELA M 251; per il restante 20% una coppia di microfoni a nastro Coles 4038 per riprendere il corpo dello strumento, mentre lo Schoeps riprende perfettamente l’attacco delle note. Infatti non è facile registrare bene la mia chitarra, perché quando si suona una melodia lenta le note sono facilmente distinguibili, ma quando si suonano contemporaneamente e in velocità il basso, l’accompagnamento marcato e la melodia con tante note, ci vuole un microfono molto definito per non far perdere i dettagli dell’esecuzione. Siamo riusciti alla fine ad ottenere un suono definito ma rotondo allo stesso tempo che ci ha soddisfatti pienamente. Il disco è poi stato masterizzato a Roma.

Come si acquista questo disco?

Al momento abbiamo scelto di distribuirlo da soli e i risultati sono molto molto positivi. Fra l’altro chi lo preordina lo riceverà a casa con autografo personalizzato. Si può contattare Alfredo Lo Faro mandando un messaggio al 333-3355811.

Ringrazio Francesco Buzzurro – fra l’altro, e forse soprattutto, persona squisita – per il tempo che ci ha dedicato e invito tutti i lettori i quali non hanno ancora mai ascoltato la sua musica a cercare una sua qualunque esecuzione su YouTube, magari proprio Montagne S. Genevieve di Django Reinhardt. Fidatevi di me: ne resterete esterrefatti! 

info: www.francescobuzzurro.it