Richard Corsello

Recording and mixing engineer di vecchio stampo.

di Douglas Cole

Recording and mixing engineer di vecchio stampo, Richard Corsello lavora oggi come fonico e produttore di una varietà di musicisti impressionante. Nonostante la sua carriera lunghissima e stellata è un umile professionista, con un modo diretto e schietto. È soprattutto un uomo da studio, ma dal 2005 ricopre anche il ruolo, davvero non da poco, di responsabile audio e fonico di sala in tournée di una delle leggende viventi del Jazz mondiale: Sonny Rollins.

l personaggio di questo numero ha vissuto da dentro una grande parte dell’evoluzione dell’industria discografica e ha visto il periodo di più profonda evoluzione della tecnologia audio. Ha affiancato in qualità di tecnico alcuni dei più grandi nomi nel mondo della musica e della produzione discografica statunitense dell’ultimo secolo. Vanta infatti una lista di crediti impressionante come engineer, firmati con il suo nome o con l’alias “Dr. Schnoz”, e una lista di lavori non-accreditati ancora più vasta. L’abbiamo incontrato in occasione d’Umbria Jazz 2012, dopo la data di Sonny Rollins, e durante un aperitivo, due gelati e un paio di caffé, ci ha raccontato 45 anni di storia che, purtroppo, non entrerebbero mai nelle pagine a disposizione. Così ci limitiamo a raccontarvi una serie dei più pertinenti (e pubblicabili!) aneddoti e delle battute che ci ha regalato quel pomeriggio.


Come è avvenuto il tuo contatto con l’industria del recording?
Ci avevo sempre giocato intorno, perché c’era sempre attrezzatura per la registrazione in casa mia. Mio padre era un musicista di professione, suonava la steel guitar nell’orchestra Swing and Sway Band di Sammy Kaye e nell’orchestra dei Dorsey Brothers, mentre mio fratello, Joe, è un batterista niente male (con un CV direi piuttosto interessante: Benny Goodman, Gerry Mulligan, John Scofield, Sonny Rollins e altri – ndr). Avevamo in mezzo alla sala di casa un incisore per dischi in vinile e sempre tutti i migliori apparecchi. Il mio giocare con questa roba mi ha portato ad una certa dimestichezza con l’audio. Ma in effetti lavoravo da uno sfasciacarrozze.
Il momento decisivo è venuto quando mio fratello suonava con la Big Band di Stan Kenton al Plaza Hotel di New York. Io andai nel backstage una sera a salutarlo e mi invitarono a cenare con la band. A questa cena, sedeva di fronte a me un signore che, durante le chiacchiere, mi chiese chi fossi e cosa facessi nella vita. Gli dissi il mio nome e fece un po’ di festa: “Oh sei il fratellino di Joe! Allora, tu cosa fai?”.
“Sono un recording engineer”, risposi. Non so cosa avessi in testa o da dove venne quella risposta. Come si scoprì, quel signore era il vicepresidente e direttore generale dei Capitol Studios a New York, e chiese se mi interessasse un lavoro. Che cosa dovevo fare... rifiutare? Così scrisse il mio numero di telefono e ci salutammo.
Ogni giorno, quando tornavo a casa dal deposito di robivecchi in cui lavoravo, chiedevo a mia mamma se avesse ricevuto una telefonata per me. Mi diceva sempre di no e che stavo sprecando tempo. Invece una sera, dopo cena, il direttore del dipartimento tecnico dei Capitol Studios a Manhattan telefonò e mi chiese di andare da lui per un colloquio.
Esaltato, risposi “Sì, certo! Quando?”.
“Ce la fai ad essere qui tra un’ora?” mi disse.
Ignorando totalmente i problemi relativi al fatto che erano le sette di sera e che mi trovavo a casa mia a Stamford (in Connecticut, un altro stato – ndr) gli dissi “Arrivo!”.
Dopo aver stabilito qualche nuovo record nel campo dei trasporti via terra, lo incontrai e mi assunse quella sera stessa. In effetti, fortunatamente, non avevano un posto libero da engineer in quel momento, così mi mandarono a scuola per imparare le vere basi tecniche e per imparare le tecniche di mastering; nel frattempo perfezionai l’arte della preparazione del caffé nell’ambiente dello studio.
In questi studi a New York della Capitol veniva gestito il “Record&Tape Club” dell’etichetta. Parecchi dei miei primi veri lavori furono nel re-mastering di dischi per l’8‑Track e “Musicassette”, il cui lavoro spesso veniva relegato a quelli che ancora facevano la gavetta. Così ho rimasterizzato letteralmente migliaia di dischi, compresi quelli dei Beatles, visto che Capitol era la loro etichetta nordamericana.
Dopo questo periodo, abbastanza lungo, di apprendistato, si liberò un posto in studio, così mi spostarono ai piani alti... poco prima che Capitol decidesse di chiudere gli studi a New York, nei primi anni Settanta. E questo, purtroppo, fu la fine di un periodo bellissimo.


corselloOvviamente non tornasti al deposito di robivecchi?
No, andai ad All Platinum Records in New Jersey, che aveva appena acquistato l’etichetta storica Chess. Lì ho mixato Etta James, Solomon Burke, Brooke Benton, The O’Jays, The Moments, Pillow Talk, Silvia e tanti altri. Sono rimasto lì per due o tre anni. Uno che conobbi a Chess era Hank Cosby, grande sassofonista e produttore per Motown (The Supremes, The Temptations, Stevie Wonder, Smokie Robinson) che aveva anche co-scritto My Cherie Amour con Stevie e The Tears of a Clown con Smokie. Feci tantissimi dischi con lui. Egli in seguito andò alla Fantasy Records in California e, apparentemente, mise una buona parola per me, perché da lì mi chiamarono poco dopo.
Mi spostai così all’Ovest – a San Francisco – e, lavorando con Fantasy, ho conosciuto e registrato Sonny Rollins, Bill Evans e tantissimi altri miti del jazz. Sempre a San Francisco, a fine ‘70 / inizi ‘80, ebbi l’opportunità di mixare dei classici della dance music, lavorando con Sylvester e The Weather Girls (Two Tons of Fun), e di partecipare allo sviluppo del rock-n-roll di San Francisco dei primi Ottanta, lavorando come fonico residente allo studio di Neal Schon (Journey, Santana, ecc – ndr).
Poco dopo mi trovai a fare i mix con Barry Gordy al suo Hitsville West Studio a Los Angeles. Facemmo un sacco di dischi insieme, per Motown.


Allora c’è molto di più del Jazz nella tua carriera...
Ho sempre lavorato per case discografiche e studi associati, imparando a fare qualsiasi genere. In quel contesto lavorativo, un fonico può avere una scaletta per la settimana che indica sessioni con i Journey lunedì, mercoledì e venerdì, sessioni di Sonny Rollins il martedì e il giovedì. È indubbiamente necessario avere idee chiare sui diversi tipi di musica. Adoro il R&B, ma il jazz – in particolare il be-bop che fa Sonny – è una cosa molto più organica. I processi della registrazione e del mix nel be-bop sono essenzialmente mezzi per soddisfare un unico scopo: catturare e replicare in modo fedele il suono della band in uno spazio. Punto.
Bisogna mettere un capellino diverso per ogni tipo di musica. Il vero professionista non si specializza in un tipo di musica, si specializza nell’unica caratteristica che un disco deve sempre avere: la qualità, a prescindere dal genere. Oltre a tutto il R&B, la dance ed il jazz, mi sono trovato a fare dischi anche con Y&T, Tesla, Bad English. Devi capire la musica e l’artista e dargli quello che richiede, non necessariamente quello che vuoi dare tu. Mi trovo troppo spesso in tournée un fonico residente in una venue che pre-imposta il canale del sassofono con un sacco di effetti. Quando arrivo e gli chiedo perché, la risposta inevitabile è “Questo è il mio sound”. Quasi si offendono quando stacco tutto, rimetto gli EQ quasi lineari e gli dico: “Ma questo è il suo”.


Come riesci a adattare il tuo metodo di lavoro dallo studio alle venue live?
Lavorando con Sonny non è veramente molto diverso. Generalmente, quando facciamo registrazioni, Sonny, come sul palco, cammina in giro nello studio mentre suona, va a suonare insieme agli altri... così, oltre che sui microfoni dedicati, il sax finisce un po’ qui e là, sulle tracce dei tom come in quelle del basso. Se il prodotto finale dovesse essere come un disco dei Tesla, ogni traccia sarebbe da overdubbare in isolamento. Invece, su un disco be-bop deve essere così, perché il jazz succede una volta sola, anche nello studio. Rimane solo il mio lavoro di bilanciare tutto nel mix e di togliere l’innaturalezza causata dai trasduttori. Quindi lo studio, in questo contesto, non è già una situazione così controllata. Sul palco è essenzialmente la stessa situazione, aggiungendo la complicazione dei monitor.
Sonny si esibisce dal vivo con un sestetto: sassofono, percussioni, batteria, basso, chitarra e trombone. Non contando i canali spare, uso generalmente un totale di soli 12 canali. Non raramente uso, anche sul palco, un microfonaggio della batteria con un solo microfono sulla grancassa e due overhead.


La semplicità è la tua arma segreta, quindi?
Io sono cresciuto professionalmente in un’epoca un po’ diversa. Mi ricordo alla Capitol, ed anche ai Colombia Studios a New York, quando si arrivava per una sessione di registrazione, c’era un engineer con la sua camicia a mezze maniche, la cravatta stretta ed il cestino per il pranzo appoggiato sulla regia. Si aspettavano sempre le 10:00, perché era l’ora della pausa-caffé sindacale. Non importava se Frank Sinatra stava nel mezzo di un take vocale: passava lo studio manager ad indicare l’orologio e tutto si fermava!
D’altra parte, in questi studi, che erano tra i più importanti nel paese, la console in regia aveva dieci canali in ingresso e quattro, penso, in uscita. Avevano degli equalizzatori sui canali, sì... ma on/off. EQ inserito poteva essere ±2 dB a 10 kHz per gli alti e ±2 dB a 100 Hz per i bassi.
L’approccio al lavoro di questi signori era una cosa fantastica, che purtroppo è andata un po’ persa con gli anni e le nuove tecnologie. Oggi vedo troppi giovani fonici cercare i suoni in regia, girando manopole e torturando segnali finché non viene fuori qualcosa. Una volta non c’era tutta quella roba e si andava prima di tutto con l’orecchio, ascoltando la sorgente da ogni punto per sentire dove doveva andare il microfono scelto. Devo dire che ho imparato moltissimo da quei signori che stavano per andare in pensione a quell’epoca: lavoravano con orari sindacali, mettevano la cravatta ogni giorno ma sapevano veramente sfruttare al meglio gli attrezzi primitivi dell’epoca, e con questi hanno registrato migliaia di dischi stupendi. Mi fa veramente tristezza vedere un fonico che arriva in studio con la sua “scatola di trucchetti”, tira fuori degli EV 636, scelti perché ha sentito che servono ad ottenere un suono “vintage”, e poi li butta sui tamburi come se fossero degli SM57, salvo poi contorcerli oltre qualsiasi riconoscibilità con un compressore e un EQ!
Quello che faccio io è quello che si faceva 50 anni fa: innanzitutto ascolto quello che deve essere ripreso, per capire come riprenderlo; poi limito al minimo indispensabile quello che si usa per riprenderlo e, infine, se qualcosa non suona bene, il problema va corretto alla sorgente... se è correggibile.
Durante la registrazione di un disco di McCoy Tyner, una volta, c’erano insieme in studio tantissimi musicisti, e Jack Dejohnette che suonava la batteria proprio attaccato al pianoforte. C’era moltissimo bleed di batteria sui microfoni del piano e ho lavorato ore per sistemarlo, ma senza risultato, era un problema inevitabile. Abbiamo semplicemente accettato questo, e alla fine il disco è venuto benissimo. Ricordate: non si possono sacrificare le esigenze artistiche dei musicisti per le esigenze tecniche ed accademiche del fonico, non funziona così. Il tecnico o risolve il problema o fa sì che il risultato sia garantito nonostante il problema.corsello


Che tecnologia ha avuto il più profondo impatto sul tuo lavoro negli ultimi 45 anni?
Ovviamente ce ne sono tante. Partirei dalla standardizzazione dei cavi e dei connettori, senza trascurare la transizione allo stato solido e la conseguente riduzione del rumore di fondo. Tutti gli apparecchi di oggi sono molto meno rumorosi dei loro predecessori, anche se questo ha comportato la brutta abitudine di mettere troppa roba nella catena del segnale. Ma, per un margine enorme, la tecnologia che ha cambiato di più il processo di produzione dei dischi è ovviamente l’editing digitale.
Quando nei primi anni Ottanta lavoravo con il produttore Barry Gordy, proprietario di Motown, cominciammo il mix di un artista – di cui non dico il nome ma davvero molto famoso – che era già tornato a casa a migliaia di chilometri. Ascoltando le tracce, Barry si rese conto che il testo conteneva un termine che non voleva sui suoi dischi, non osceno, ma una parola slang per lo spacciatore d’eroina. Perciò io dovetti cambiarlo e renderlo incomprensibile. Oggigiorno questa sarebbe un’operazione di pochi minuti. Ma allora dovvetti fare quello che si chiamava un “window cut”. Dovetti trovare e segnare quella sezione di testo, che sul nastro da 2” era lunga solo due metri e mezzo. Poi tirai giù quel pezzo del nastro e misurai la sua sezione per trovare la traccia del vocale. Dopodichè, con il nastro sul tavolo, dovetti tagliare fuori una striscia strettissima nel mezzo del nastro, lunga due metri e mezzo e perfettamente dritta. Ci vogliono nervi d’acciaio per una cosa del genere, perché uno sbaglio vuol dire distruggere tutta la registrazione di quel brano. Poi invertii la traccia nel senso lungo e la riattaccai con lo scotch di editing, per lasciare il timbro della voce, ma con la dizione a retromarcia e, conseguentemente, incomprensibile. Infine nel mixaggio portai su gli strumenti proprio quando arrivava quella riga, anche perché, fortunatamente, sopra la fine del testo arrivava una sezione funk abbastanza interessante. Parliamo di un disco che divenne piuttosto famoso e, secondo me, ci sono ancora dei fan che discutono tra loro sul significato di quella parola...
La registrazione digitale sicuramente lavora a nostro favore. A livello di suono non so se è sempre la scelta migliore, ma sicuramente a livello di editing è stata una rivoluzione totale.


Mantieni qualche usanza tecnica anacronistica?
Sono sempre a favore di registrare la batteria sul nastro, particolarmente su rock-n-roll e R&B. Ho imparato da Barry Gordy a registrare “sul rosso” con il nastro, lui addirittura spegneva i monitor e giudicava la compressione del nastro dalla violenza del rumore che facevano gli aghi dei VU-meter quando sbattevano a fine corsa! Ovviamente, però, adesso riverso le registrazioni in digitale per il mix.


Come è avvenuta la tua “italian connection”?
Ho conosciuto Angelo Tordini a Umbria Jazz due anni fa. Mi ha regalato due cavi che hanno seriamente cambiato il mio punto di vista sulla differenza che possono fare i cavi. Ovviamente, arrivando dalla “vecchia scuola”, sapevo già bene l’importanza del corretto tipo e della costruzione del cavo; una volta negli studi grossi ci si fidava solo dei cavi costruiti e testati in casa. Quello che non capivo prima, però, era la differenza che fa la progettazione del cavo stesso. In tournée con Sonny, registro tutti i concerti solo dal L/R del mio mix su un registratore portatile, registrazioni che poi masterizzo in studio per i dischi Road Shows. Quando eravamo in tournée e registravo Road Shows Vol. II, siamo venuti ad Umbria Jazz e Angelo mi ha convinto a provare questi due suoi cavi per la mia registrazione. Questa è anche una prova della capacità persuasiva di Angelo: un uomo che non conoscevo che dieci minuti prima dello spettacolo mi ha convinto a provare due cavi, di un marchio a me sconosciuto, per registrare una performance che potenzialmente poteva andare su un disco! Comunque li ho provati e devo dire in tutta onestà che hanno fatto una differenza tale su quella registrazione che li ho usati per tutto il resto del tour e per le registrazioni andate sul disco, il quale, quest’anno, è anche stato nominato per un Grammy. Ora ho cominciato a girare con un rig per la registrazione multitraccia, oltre a quella stereo, e l’ho portato subito ad Angelo per farmelo cablare completamente con i suoi cavi. Voglio specificare che non ho un endorsement o niente del genere – i cavi Reference ancora non vengono neanche distribuiti negli Stati Uniti – è solo che ho trovato un attrezzo che fa una differenza notevole e di cui mi fido.


C’è qualcosa che avresti fatto diversamente in questi anni?
Ecco una cosa che non succederebbe mai oggi. Fantasy Records aveva appena costruito una nuova sala, Studio D, che all’epoca aveva un singolo studio paragonabile al mondo, cioè gli studi Sony in Giappone. Il direttore dello studio chiamò Huey Lewis e lo invitò a lavorare al suo nuovo disco in questo spettacolare studio, con me. Così Huey, la band ed io iniziammo con tutte le preregistrazioni per la sua casa discografica. Il settimo giorno, Huey ed io avevamo lavorato tutta la notte sui mix grezzi per tutti i brani, così che Huey li potesse portare alla casa discografica per essere sicuri che tutto procedesse in modo soddisfacente per l’etichetta. Io quel giorno avevo dimenticato le mie chiavi, così non potevamo accedere alla cassaforte dove, insieme ai master, si tenevano i materiali di consumo. Questo precedeva l’epoca del CD, perciò ci serviva una cassetta per i downmix.
Huey mi disse: “Torno subito, ho una cassetta in macchina”.
Non c’erano altre opzioni, così lo aspettai e quando tornò aveva in mano una cassetta RadioShack “D”, fatta per i dittafoni!
Erano le 6:00 di mattina, e noi ci trovavamo a Berkeley. Huey doveva incontrare il suo manager a Monterey alle 8:00, così andò a finire che dovemmo riversare tutti i mix dai nastri da 2” su questa cassetta prettamente di merda. Huey partì alle 6:30 per incontrare il manager e l’etichetta, e io ricevetti la telefonata alle 10:00 con la quale mi licenziarono. Obbligarono Huey a non lavorare più con me perché erano stupiti dalla bruttissima qualità della registrazione.
Questo è il motivo perché io ho ancora una collezione di nastri da 2” che sono solo memorabilia, mentre oltre 10 milioni di persone in tutto il mondo possiedono una copia del disco Sports registrata e mixata da altri colleghi!