Musica e nuoto

La nostra conquista si può fare solo in un modo, lo stesso del tuffatore: buttandosi.

di Stefano Lentini

 

Fino ad oggi ho parlato dell’Indipendenza come un valore, una condizione, uno stato, un’attitudine, uno spirito guida, un’aspirazione. L’indipendenza ha mosso i suoi passi nella musica e poi ha invaso tutto, le relazioni, l’autoconsapevolezza, la visione della realtà, la creazione, la società in ogni suo distretto.

L’Indipendenza, quella fiamma che ti rende connesso ai tuoi bisogni e che allo stesso tempo lascia riconoscere quelli altrui, quella forza dell’io che non travolge ma include, quella polarizzazione dell’identità che non è nazionalismo ma antropologia dell’uomo: riconoscimento, variabilità, rispetto, riguardo e cura.

Ma da dove viene l’Indipendenza? Dove si forma e si sviluppa. Dove nasce, chi ce la offre, quali gli strumenti per la sua pratica e maturazione. È sufficiente essere convinti che si tratti di un valore o la sua verità è legata alle dinamiche profonde di ciascuno di noi? Si trova nel cervello o nell’anima?

L’ anima è una parola complicata, ci serve per poter volgere lo sguardo all’esoterismo delle nostre cose più normali. Anche la lingua che parliamo è un pezzettino della nostra anima, il dialetto, l’inflessione, le parole con cui ci capiamo coi nostri amici abitano un territorio a metà tra consapevolezza e virtù, mistero e capacità. Non possiamo scegliere con il nostro pensiero lucido di parlare un’altra lingua se non l’abbiamo imparata, anche se siamo convinti che parlarla sia la cosa giusta, non è detto che ci sia concesso.

Ecco anche l’indipendenza è così, non è detto che conoscere i valori renda reale la loro pratica quotidiana. Gli uomini hanno la grande capacità di raccontare storie e per questo a volte siamo molto abili nel – raccontarcela –.

L’indipendenza si riceve o si guadagna

L’Indipendenza si può cominciare a riceverla fin da bambini. E si comincia con l’omeopatia dei “no”. Molti genitori credono che il “no” sia un atto coercitivo e doloroso e la paura della sofferenza e del pianto dei loro bambini si mescola all’incapacità di comunicare decisioni ferme. Il “no” è spesso disciolto nella melassa della distrazione dove il bimbo è spinto a fare altro per essere distolto dalla sua richiesta. Crescere in un ambiente in cui al “no” è sempre seguita una distrazione significa fondamentalmente non ricevere mai un reale impedimento alle proprie richieste e di conseguenza non avere mai fatto i conti con la frustrazione che ciò comporta. Ricevere un “no” con gli occhi che guardano i tuoi significa invece fare i conti col finito, con l’autorità e la realtà ed anche imparare ad assumere e a rielaborare all’esterno la stessa capacità di negazione e rifiuto. È come imparare a perdere nello sport, che coincide anche con l’imparare a vincere. Ricevere solo approvazione o maldestre simulazioni di rifiuti implica l’impossibilità di costruire il piccolo mondo di indipendenza che avere un confine e dare un confine può significare. Dire no è anche un atto d’amore, verso gli altri quando si spingono per una strada migliore, verso se stessi, quando si respinge il male in ogni sua declinazione, una bevanda troppo fredda, un invito fuori luogo, una richiesta pericolosa.

Confondere l’amore con la soddisfazione delle richieste crea quella cosa chiamata “vizio” che coincide con la piagnucolosità, l’incapacità di affrontare le situazioni, l’incapacità di dire un reale “no” agli altri, l’incapacità di avere un sì e un no dentro se stessi. E poi si cresce, e queste incapacità ce le ritroviamo addosso nelle relazioni d’amore più astruse, di fronte alle ingiustizie, sul lavoro, dentro di noi se dobbiamo compiere delle scelte. A volte l’indipendenza ce la dobbiamo costruire dai quindici anni in su.

Adolescenti

È universalmente riconosciuto che l’adolescenza sia uno dei momenti più duri della vita dell’uomo. Non è propriamente così, per lo meno non ovunque.

L’adolescenza è una cosa atroce quando ci si trova da soli catapultati in un mondo che muta senza un briciolo di consapevolezza di cosa siamo. Ci si ritrova ad essere qualcosa improvvisamente ma non sappiamo cosa. Dobbiamo scoprirlo e allora per farlo partendo da zero è chiaro dobbiamo provare tutto. Dobbiamo provare il divertimento e la tristezza, l’alcool e le indigestioni, la droga e lo sport, la vita e la morte, la musica, la paura, la soddisfazione, l’insoddisfazione, il dolore, il piacere, la frustrazione, la rabbia, le urla, il silenzio. Non c’è nulla di male a provare tutto questo, non c’è un limite alla conoscenza e ognuno deve percorrere la strada che deve, ma farlo per attitudine e desiderio è ben diverso che farlo per desolazione e confusione. Come sempre la differenza sta nel “come” e non nel “cosa”. Arrivare all’adolescenza indipendenti è un’esperienza diversa dal giungervi dal deserto di azioni prefabbricate dove ti hanno insegnato a dire “buongiorno” quando entri, “buonasera” quando esci, ma non l’hai mai visto dire per davvero; dove sai cosa è giusto e sbagliato con le circonvoluzione del cervello, ma in verità non senti niente perché non ti è mai stata data la possibilità di avvicinarti alle cose con la spontaneità e l’istinto del cucciolo curioso che sbaglia, capisce, rompe, ride e piange senza un codice predefinito.

Ma se all’adolescenza ci arrivi in quell’altro modo, quello normale, quello in cui ti hanno trattato come un bambino finché non hai fumato una sigaretta o fatto una canna, allora tutto il lavoro di conquista dell’indipendenza devi farlo da solo, contro tutti pure.

Colonizzare l’indipendenza

Ok, ora siamo adulti, abbiamo dovuto costruire la nostra maturità da grandi, capire le nostre attitudini mentre lavoravamo, la nostra spinta profonda dopo chili e chili di errori, misurarci con le frustrazioni e l’aggressività in ritardo, scoprire le nostre passioni a trent’anni. Abbiamo dovuto lottare con il mondo esterno che ci ha chiesto di essere qualcosa senza occuparsi di chi fossimo, ripetere azioni di altri, copiare l’inerzia di chi ci ha preceduto, suonare le canzoni che andavano suonate, fare la musica che andava fatta. È il mercato discografico a chiedercelo, è il talent-scout di turno, è il critico musicale di moda, è il trend del mercato, è la gente, il pubblico, il business, il briefing, il brunch, il politically-correct.

Sappiamo che la musica è altrove, discografici, produttori, musicisti, compositori, registi e sceneggiatori. Eppure lo sporco lavoro domina il lavoro. È quello che vogliono, mi pagano per farlo. Pop italiano in cui non crede più nessuno, rock ibernato, musica classica museologizzata, emulazioni di trasgressione, parole ciniche nella moda decadente dell’autore maledetto, ripetizioni, ripetizioni, annullamento di identità, perdita di personalità. Come possiamo riconquistare quel territorio di ricchezza e potenzialità che coincide con la liberazione dei bisogni? Ho la sensazione che senza dover dire nulla sia sufficiente rompere la routine, agire, ed attendere i riflessi di luce dall’universo.

Forse la prima regola è cercare di abbandonare dietro le spalle “l’ansia del decalogo”, la ricerca spasmodica delle regole giuste per fare la cosa giusta. Ogni attività ha una storia, ogni disciplina ha una tecnica, ogni materia ha un sapere, ma la conoscenza va risucchiata e digerita, usata e stravolta, altrimenti rischiamo di divenire filologi dell’arte, creatori di riproduzioni d’altri, replicatori di visioni, falsificatori di quadri d’epoca.

Dal gestore del pub che vuole cover a tutti i costi, al produttore discografico da catena di montaggio, ogni giorno dobbiamo misurarci in parte con una realtà restrittiva e sfibrante. La nostra conquista non sarà dire un fermo, astratto, ruvido e asociale “no”. La nostra conquista sarà nutrire lentamente quello spazietto di libertà che c’è sempre, trovarlo, sfamarlo, alimentarlo. La nostra conquista non sarà un luogo ma una ricerca. Trovare nel finito l’infinito; nel no, il sì; nel perimetro, il mattone mancante; nella paura, il coraggio. E tutto questo si può fare solo in un modo, lo stesso del tuffatore e dell’attore prima di salire sul palco: buttandosi.