The Alan Parsons Live Project

Non abbiamo voluto perdere l'opportunità di vedere una leggenda della musica moderna fare una cosa che non ha mai fatto all'apice della sua carriera: suonare dal vivo

di Douglas Cole

a-IMG 9457Il contributo di Alan Parsons alla musica moderna è indiscutibile. Anche senza parlare della sua discografia da musicista (ignorando cioè diversi dischi di platino e milioni di copie vendute in tutto il mondo), il patrimonio di Parsons include il suo noto e pluripremiato lavoro come fonico da studio e produttore. Per chi, magari, ha vissuto fino ad oggi sotto una pietra, Parsons è stato coinvolto come assistente fonico nella produzione degli album Abbey Road e Let It Be, e come fonico nella produzione di Wild Life, Red Rose Speedway, Atom Heart Mother, The Dark Side of the Moon (non credo di dover citare gli artisti, qui) e cinque dischi degli Hollies con alcuni dei loro brani più iconici. Come produttore musicale, ha firmato anche Modern Times, The Year of the Cat e Time Passages di Al Stewart, e questi rappresentano solo una piccola selezione dei suoi crediti come engineer e produttore. 

Essendo anche chitarrista, tastierista, bassista e flautista, Parsons ha avviato una carriera musicale in parallelo a quella già di successo come fonico e produttore negli anni Settanta, fondando insieme a Eric Woolfson The Alan Parsons Project. Con questo progetto, ha pubblicato una dozzina di dischi da studio tra il 1976 e il 1990, più un numero notevole di raccolte. Anche come compositore e musicista, ha riscontrato un enorme successo, con tantissimi brani amati dai fan e anche dal grande pubblico. Parsons è stato nominato per un totale di undici Grammy Award, tra quelli tecnici ed artistici.

The Alan Parsons Project è sempre stato un progetto discografico. Ha suonato dal vivo solo una volta tra la nascita del progetto e la sua fine, nel 1990. Negli anni ’90, invece, Parsons (con il consenso di Woolfson) ha avviato il progetto che poi è diventato The Alan Parsons Live Project, apparentemente con l’intento di fare quello che non poteva fare al picco della popolarità del Project originale: poter finalmente suonare il repertorio dal vivo, grazie alla possibilità offerta dalle tecnologie di riprodurre live in modo abbastanza fedele il proprio catalogo discografico.

Parsons tiene ancora operativa questa band, composta di musicisti bravissimi, quasi tutti nati dopo l’inizio della carriera dell’artista. Il progetto è, dichiaratamente, una situazione alimentata dalla nostalgia e che opera comodamente, senza grandi pressioni... infine, Parsons non ha niente da dimostrare, solo voglia di continuare a dare qualcosa ai suoi fan. 

I concerti di Parsons variano come configurazione e come tipologia di calendario. Spesso fa le date una tantum in varie parti degli Stati Uniti (Parsons è Londinese DOC, ma risiede da tantissimi anni in un ranch in California con una produzione biologica di avocado), ma qualche volta all’anno parte per tournée molto brevi, toccando circuiti di festival, eventi speciali con orchestre e date sporadiche in America e Europa. Abbiamo avuto la fortuna di averne una dell’ultima tournée di questo Live Project proprio nel nostro giardino di casa, all’Arena della Regina di Cattolica. La data è stata organizzata da Musical Box 2.0 Promotion, agenzia piuttosto specializzata negli artisti di musica progressive, insieme a BPM Concerti.

Alessandra Rocco – Direttrice di produzione per le date italiane

Nel massacrante caldo dell’Arena della Regina, incontriamo Alessandra Rocco, tutto il giorno al lavoro sul palco insieme al service e alla squadra di tecnici in tournée.

“Alan Parsons – spiega Alessandra – è stato portato in Italia da una collaborazione tra BPM e Musical Box 2.0. Ad occuparci delle date italiane siamo in due: io curo la produzione, mentre la mia collega Vania, tour manager italiana, si occupa dell’ospitalità dell’artista e di tutta la band e la crew.

“In Italia viaggiano da soli – continua Alessandra – musicisti e crew, e noi gli dobbiamo organizzare tutta la produzione sul posto. Contattiamo prima i service e con loro concordiamo l’organizzazione del servizio e del materiale. È abbastanza faticoso per noi, perché in ogni piazza abbiamo a che fare con dei service diversi che non sempre portano quello che è stato richiesto e questa cosa può causare problemi non indifferenti alla crew di Parsons. Spesso sono dettagli, ma sono proprio quelli che danno loro più fastidio.

“A Roma, a Villa Ada, abbiamo trovato un impianto Adamson non molto in forma, mentre a Gavorrano, al Teatro delle Rocce, abbiamo incontrato il service Live 95 che ci ha proposto un nuovo impianto APIA. Qui a Cattolica abbiamo trovato un line-array Martin W8L, gestito da Amandla Productions: è magari un po’ datato, ma comunque fa egregiamente il suo lavoro. Solo una cosa ho preteso dai vari promoter che hanno comprato la data: che usassero lo stesso fornitore di backline, nella fattispecie Mokke’s Backline Rent, che per lo meno nelle tre date ha portato gli stessi strumenti per i musicisti”.

Ross Pallone – Direttore di produzione in tour e fonico FoH

“Siamo in tournée da tre settimane – ci dice Ross – ma abbiamo fatto solo otto concerti: tre in Spagna, tre in Italia e domani attraversiamo l’Atlantico e facciamo due spettacoli in New Jersey. Lavoro per Alan da cinque anni e, da quando ci sono io, non siamo mai stati fuori più di tre settimane alla volta. Quando ho cominciato a lavorare con Alan, c’era già un fonico di sala ma mi hanno chiamato per fare il direttore di produzione e, per il primo anno, ho fatto solo quello. Il secondo anno, Alan mi ha chiesto se potevo occuparmi anche dell’audio in sala.

“In Germania Alan ha molto sèguito, e riusciamo a fare anche tre settimane di tournée con tante date; poi facciamo delle date sporadiche, tre o quattro alla volta... non usciamo mai per mesi interi. Ad Alan piacciono i progetti dal vivo ma, secondo me, li vuole tenere dentro i confini del comfort.

“In tour siamo in quattordici: otto della band, compreso Alan, quattro della crew, la moglie di Alan, Lisa, tour manager, e la figlia di Lisa, assistant tour manager.

“Non portiamo praticamente niente al seguito: i due chitarristi portano una chitarra principale a testa, Alan porta una chitarra; portiamo due Pelican Case con un sacco di piccole cose che ci servono, ma tutto il backline è a noleggio, comprese le tastiere... in Italia, abbiamo almeno lo stesso backline per tutti i tre spettacoli. 

“Io ho una lista di cinque o sei console che accetto. Ho le mie preferite, ma non ho sempre una di queste. Devo essere molto flessibile. Siccome tutti usano gli IEM – cioè dieci mix stereo – la scelta di console che può usare il nostro fonico di palco è limitata. Ho delle preferenze anche per gli impianti, ma riesco adattarmi a qualsiasi line-array moderno. I promoter locali chiaramente hanno i loro fornitori, ma generalmente si trova un impianto in buone condizioni. Questo impianto Martin qui suona bene ed è impostato bene per la venue dal PA engineer del service. Finché l’impianto è decente ed è dimensionato adeguatamente per la venue... la sola cosa sulla quale insisto è l’aggiunta dei front-fill. Fare il concerto con quello che trovo, però, è il mio lavoro. 

“Uso le orecchie – dice Ross – più di quanto uso qualsiasi strumento di misura. Mi fido dell’impostazione del PA engineer locale, poi lo ascolto e se c’è qualcosa da aggiustare lo richiedo e lo faccio fare a lui. Oggi, per esempio, sono appese 12 casse per lato e, visto che non si aspetta che la piazza sia piena oltre la regia, gli ho chiesto di spegnere i quattro moduli in cima agli array. Non aveva senso buttare suono sopra le teste di tutti, solo per farlo rimbalzare dai palazzi in fondo alla piazza. 

“Per quanto riguarda le mie scelte di console – continua Ross – per questa band ho molte cose dal palco da gestire. Quattro uscite stereo dalle tastiere che arrivano da un lato del palco, ho la tastiere di Alan, due chitarre, otto voci... ho bisogno di una console che mi consenta di arrivare a tutto molto velocemente. La mia preferita è la Yamaha CL5, che posso configurare in modo da arrivare a tutto quello che mi serve senza scorrere o cambiare pagine quasi per niente. La mia seconda preferita sarebbe la PM5D-RH. In questa tournée ci sono capitate delle PM5D ma le versioni più datate; l’unica versione -RH che abbiamo visto era al palco, una sera. Oggi ho una Avid Venue Profile, che è abbastanza in basso sulla mia lista di console preferite.

 “Cerco di mantenere anche un volume molto contenuto. Generalmente tengo intorno ai 96 dB con picchi intorno a 101 dB. Abbastanza per avere un po’ di energia, ma senza dare fastidio... il pubblico non è generalmente di ventenni.

“Alan Parsons è conosciuto per i suoni molto puliti – dice Ross – ed io sono sempre stato quel tipo di fonico. Ho lavorato in studio molto più che dal vivo per tantissimi anni... il mio primo incarico come fonico dal vivo è stato con Michael McDonald. Avevo registrato il suo secondo disco da solista e mi chiese di andare in tour. Visto il mio background, sono abbastanza conosciuto per un suono pulito e controllato. 

“Al PA mando un L/R su un’uscita dalla matrice – spiega Ross – poi i front-fill su un’altra, inoltre, quando ci sono degli array laterali, anche quelli sono su un’uscita matrix a parte. Poi ho sempre i sub su un aux, perché ci sono diversi suoni particolari durante lo show, specie dai sintetizzatori, per cui i sub sono quasi un effetto aggiuntivo.

“Sono abbastanza flessibile sui microfoni... per quanto riguarda le voci, a tutti piace il buon vecchio Shure SM58, ed anche a me: è facile da gestire, raramente ce n’è uno rotto, e ancora non c’è stato chi non ne aveva disponibili. Quando ci sono otto microfoni per le voci sul palco e l’impianto e la console possono essere diversi ogni serata, almeno c’è la sicurezza del microfono SM58. Per il resto non ho particolari richieste, ma ci sono alcune preferenze sulle quali insisto: chiedo Shure Beta91A e Beta52 sulla cassa, degli SM57 sul rullante sopra e sotto, e preferisco i dinamici Sennheiser sui tom. A me piacciono i Neumann KM184 come overhead, ma ho usato di tutto.

“Portiamo dietro tutte le nostre DI. L’altra cosa che portiamo dietro è un paio di Sennheiser e609 per l’ampli della chitarra lead. L’altro chitarrista utilizza un amplificatore modelling Kemper: tiene una cassa sul palco ma io prendo il segnale direttamente dal Kemper. 

Phil Dunn – Fonico di palco

“Porto su una memoria USB le impostazioni per diverse console – spiega Phil – la mia prima scelta è Midas Pro6, poi Yamaha PM5D-RH, poi Soundcraft Vi6, Yamaha CL5 e sto lavorando adesso per le DiGiCo. Qualche anno fa abbiamo avuto un problema con una D5 e da allora DiGiCo non è stata sulla mia lista, anche se sappiamo che tutte le SD adesso sono completamente diverse.

Sul palco non usiamo Avid Venue Profile: dopo averle avute un paio di volte qualche anno fa, Alan mi ha chiamato dopo il soundcheck per chiedermi quale console stessi utilizzando; gliel’ho detto e ha voluto che non la usassi più... così è stata tolta dalle ‘accettabili’ sul rider. Di solito mi trovo con una PM5D o una CL5.

“Per quanto riguarda gli IEM – continua Phil – usiamo Sennheiser ew300 G3 oppure Serie 2000. Anche se io generalmente ci lavoro molto bene, non possiamo usare Shure PSM1000 perché ad Alan non piace il compander.

“Abbiamo anche un paio di wedge sul palco, per muovere un po’ di aria per P.J. (Olsson, cantante – ndr), che spesso fa la voce principale, per integrare il suono dall’IEM. Chiediamo anche un doppio 18” per la batteria, perché a Danny (Thompson, batteria – ndr) piace sentire un po’ con la pancia. 

“Io ho otto mix stereo per la band – dice Phil – oltre ad un mix per me; inoltre abbiamo un ricevitore spare che generalmente usa Kenny, lo stage manager. Quest’ultimo lo tengo su una mandata di matrice, perciò, se ci fosse un problema con l’IEM di uno della band, Kenny può semplicemente scambiarlo con quello.

“Per quanto riguarda le radiofrequenze, porto il mio scanner personale e uso il software Shure Wireless Workbench 6, di cui sono molto contento: riesco a sistemare tutto in mezz’ora... forse un’ora in Italia, dove le problematiche sulle frequenze sono la norma.

“Per quanto riguarda gli auricolari: Alan utilizza ACS, come pure Alastaire e Danny, mentre Tom usa Ultimate Ears. Gli altri usano gli standard Shure SE215. Io, invece, uso Future Sonics perché quando ho iniziato Alan usava quelli. Un giorno arriverò a mettere tutti d’accordo, perché le differenze sono sempre un’ulteriore complicazione, particolarmente quando cambiamo i sistemi radio da una data all’altra.

“Nel setup che uso, metto tutti in post-fader a parte lo strumento e la voce di ognuno; per esempio, la chitarra e la voce di Alastaire (Green, chitarra lead – ndr) sono in pre-fader sul suo canale, mentre tutto il resto è in post. Così se faccio un cambiamento, come alzare un po’ per un assolo, il livello si alza per tutti gli altri ma non per lui. Questo lo faccio per ognuno”.

Come vuole il suo mix, Parsons?

Quando ho cominciato, Alan mi ha chiesto semplicemente di fare il suo mix esattamente come il disco – nessun problema qui, no? Adesso ha un mix discografico con un po’ più della sua voce e del suo strumento... normale, insomma. Ad Alan, però, piace avere molto suono ambientale del palco; non del pubblico, ma del palco. Così metto dei microfoni ambientali puntati un po’ in alto e verso l’esterno del palco, usando dei microfoni a diaframma piccolo per avere quella risonanza negli acuti che desidera. Il mio mix di riferimento è sempre il suo. 

Come ti sei trovato con l’attrezzatura noleggiata sul posto, in questa tournée? 

Onestamente, questo giro è stato un po’ difficile. Quasi tutti i PM5D che abbiamo avuto, a parte uno, erano la versione vecchia. Solo quella della prima data italiana era una -RH. La data di oggi non è stata particolarmente problematica, ma in quella di ieri ho dovuto eseguire la procedura di calibrazione dei fader diverse volte prima di riuscire a fare un line-check.

Ci sono dei click per la band?

Ce ne sono due, uno dalla tastiera di Alan e l’altro dal MOTU di Tom (Brooks, tastiere – ndr),  dipende da quale brano stiano suonando. Per I, Robot, il tempo arriva dal sequencer di Alan, con il loop al quale Danny (batteria) si sincronizza. Poi qualche altro brano ha un’impostazione simile. Stiamo parlando, tra noi, di spostare tutto su un singolo computer, ma Alan è un po’ reticente.

Kenny Stahl – Stage manager

“Ho studiato audio engineering – racconta Kenny – ma lavoro molto come direttore di produzione per vari eventi e vivo a Chicago. Lavoro con questo gruppo da circa tre anni; da sette organizzo un programma per i giovani insieme a P.J., il cantante. Avevo lavorato un paio di volte con Alan in questo contesto, dove Alan era venuto a lavorare con i ragazzi.

“Ad un certo punto Alan ha chiesto allo stage manager all’epoca, Dan Tracey, un noto musicista, di fare parte della band anziché fare solo il lavoro da stage manager. In quel periodo ero andato ad uno show vicino a Chicago, ed in quell’occasione ho parlato con Dan e con tutti gli altri: due giorni dopo mi hanno chiesto di prendere quel ruolo. È stata una cosa molto fortuita... all’epoca stavo facendo la tesi per un master proprio su Alan Parsons! Quando ho cominciato a lavorare in questo ruolo, ho lasciato il programma post-laurea e non ho più guardato indietro.

“Il giorno per me inizia all’albergo – spiega Kenny – generalmente intorno alle 8:00, caricando i nostri due Pelican case e la chitarra di Alan sul mezzo che ci porta alla venue. Le variabilli sono tantissime, perché suoniamo in venue che vanno dai club ai teatri da 500 persone fino ai festival con 50.000 persone. In questa versione qui abbiamo uno show da 48 canali, ma nella versione Symphonic Project ce ne sono una settantina, normalmente, settantacinque con il coro. Questi tipi di date possono anche essere misti in un singolo tour. Ross fa tutto l’advance e, per quanto riguarda qualsiasi cosa del palco o backline, sono immediatamente coinvolto, almeno per sapere cosa troverò sul palco.

“Sono l’unico backliner per tutta la band – continua Kenny –; in effetti il motivo principale per cui ho questo lavoro è che suono tutti gli strumenti che ci sono qui, dalla batteria al sassofono, ovviamente non al livello di questi ragazzi, ma sono in grado di impostare tutti gli ampli, caricare i programmi giusti nelle tastiere, montare ed accordare la batteria, ecc. Fino a prima di questo tour, usavamo tastiere con i floppy... sempre un incubo. Avere questi strumenti, funzionanti, dai noleggiatori di backline era sempre una sfida. Adesso ho delle copie di tutto su USB e anche nel cloud.

“Comincio la giornata – conclude Kenny – prendendo un caffé e chiacchierando con i ragazzi che portano il backline, casualmente, chiedendo a che ora si sono dovuti svegliare, o com’era il traffico per arrivare... cercando di capire a che distanza si trova il loro magazzino, se ci fosse un problema. Se mi dicono che si sono svegliati prima dell’alba e che la strada è lunga, controllo sempre prima il backline. Se, invece, mi fanno capire che sono molto vicini, faccio prima altre cose”. 

Martin Thomas – Lighting director

Martin Thomas si presenta “Martin come i fari, Thomas come i truss”. Un uomo nato per fare il luciaio!

“Lavoro con Alan da quattordici anni – racconta Martin –. Ho un grande lighting design asimmetrico per questo show. Per i grandi eventi, particolarmente quelli con l’orchestra, o in paesi dove magari c’è un seguito più forte, come in Germania o in Israele, il mio viene allestito più spesso. In questo tipo di tour, invece, lavoro con quello che c’è. Queste tournée che toccano più paesi vengono effettivamente vendute come una serie di concerti, non un ‘tour’ vero e proprio. 

“Devo essere in grado di adattarmi costantemente a un nuovo parco luci e una console diversa ogni sera. Infatti faccio la programmazione proprio da zero ogni giorno, spesso su console che non ho mai usato. Oggi è la seconda volta che uso la ChamSys, ma conoscevo l’Hog 2 molto bene nel passato e la filosofia è molto simile. 

“Più che altro – dice Martin – ho imparato a creare molto rapidamente le cose che mi servono. Posso portare in giro degli show programmati per diverse console, ma non succede mai che lavoro con la stessa console e gli stessi fixture in una tournée come questa in particolare.

“Una volta, in Colombia – racconta Martin – abbiamo fatto un grosso concerto sinfonico con il mio design. Sfortunatamente, c’era uno sciopero dei camionisti e la nostra roba non è riuscita ad attraversare i confini. Hanno dovuto trovare tutto sul posto e moltissimi fixture erano delle copie di quelli richiesti. Ho dovuto adattare tutto lo show, più che altro per riconfigurare i parametri per i cloni. Per me era semplicemente un altro giorno in ufficio. 

Quando puoi specificare, quali proiettori usi?

Nel design attuale utilizzo qualche Robin BMFL, tanti Pointe e parecchi LEDWash Robe di diversi tagli. Se non si capisse, sono abbastanza entusiasta dei prodotti Robe. Comunque, quando ho l’opportunità di specificare i proiettori sul posto per questo tipo di concerto, chiedo questi. Invece, quando devo lavorare con quello che troviamo, la mia richiesta è semplicemente una base di dieci Leko e due seguipersona al FoH. Tutto il resto che trovo sul posto è un bonus.

Faccio quasi tutto completamente in manuale, in giorni come oggi. Magari nei teatri o auditori durante la giornata riesco a creare delle serie di cue, ma arrivando sotto il sole con luce fino a metà spettacolo, non è possibile.

Sembra molto difficile lavorare in queste condizioni.

Io cerco sempre di mantenere un occhio positivo... imparo qualcosa di nuovo ogni giorno e ogni tanto riesco a creare qualcosa di nuovo e bello. Come stasera: in origine ci doveva essere un palco chiuso dietro con un fondale, ma avevano solo una tenda chiusa nera e l’abbiamo fatta togliere – con una tenda così su una struttura con un tetto... beh, non vogliamo comparire sulla CNN.

Senza un fondale, invece, abbiamo questa struttura dietro sulla quale ho chiesto di mettere otto 2K con delle gelatine lavender... alla fine lavender è diventata una specie di magenta, ma va bene.

“Io capisco – conclude Martin – che parecchia gente viene a vedere Alan Parsons con l’idea dei Pink Floyd in testa e cerco di rispettare questo al massimo, anche nelle situazioni più minimaliste. Perciò ci sono parecchi brani con colori dinamici, tempismi per blackout, gobos... purtroppo non ci saranno tanti movimenti stasera, perché senza poterli vedere non ho potuto programmarli. Anche di fumo, sul palco outdoor, ne resterà ben poco”.

Lo show

Come si poteva aspettare, Parsons ha assemblato una band che fa paura, e l’esecuzione dei brani in questa scaletta di oltre due ore è perfetta, anche con le armonie vocali azzeccate senza pecche. Il repertorio di The Alan Parsons Project è così vasto e variato che chi assiste al concerto, e che magari non è un fan sfegatato, si trova a ripetere diverse volte durante la serata “è vero... anche questo brano è il suo!”

Nonostante il suo affermato genio musicale, Parsons non è uno showman. Rimane quasi sempre fisso sulla sua pedana dietro la linea chitarre/sax/cantante, tra la postazione delle tastiere e la batteria. Raramente viene inquadrato dal seguipersona, a parte quando parla per introdurre i brani. Il nostro direttore l’ha definito “un animale da studio”, infatti. Il resto della band, però, mantiene un’energia e un movimento sul palco non indifferenti.

Vengono fuori tutti i brani che hanno avuto un grande impatto sulle classifiche e, sì, sono più di quelli che si ricordano. Il momento clou dello show, però, stranamente, arriva con l’esecuzione integrale dell’intera suite The Turn of a Friendly Card, venti minuti di canzone nella più grande tradizione del progressive che porta il pubblico in piedi per un applauso di quasi due minuti.

Al suono certamente non mancava niente, e il mix era molto intelligibile e nitido per ogni strumento e parte vocale. Ogni cosa aveva il suo posto, anche se il mix non si estendeva molto verso le estremità dello spettro. Magari Ross è stato anche troppo conservatore nel dosare volumi ed energie nelle basse frequenze, che potevano aiutare a rendere ancora più coinvolgente la musica.

Per quanto riguarda le luci, Thomas è riuscito ad ottenere un visuale dignitoso, considerando che lavorava con un parco luci quasi completamente appeso e molto verticale sopra la band, senza tagli, senza controluce e con solo l’essenziale di servizio per terra. È anche riuscito ad avere dei momenti con tocchi di psichedelia lavorando solo sui cambiamenti di colore. Alla fine, l’illuminazione della struttura permanente dietro il palco è forse stata più efficace dell’effetto scatola nera che ci sarebbe stato con un fondale.

Per una situazione di “si lavora con quello che si trova” hanno tutti fatto un lavoro da professionisti stagionati in grado di portare a casa ottimamente la serata. Il pubblico, infatti, è rimasto molto soddisfatto. 

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