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Indipendenti dentro no.9

di Stefano Lentini

Non tutto si compra
Il matematico francese Henri Poincaré propose nel 1904 quello che venne considerata per più di cento anni uno dei maggiori problemi irrisolti della matematica. Dopo diversi tentativi di soluzione, a partire da quelli degli anni ’30 di Whitehead e Thurston fino al tentativo del 2002 di M.J.Dunwoody, la cosiddetta Congettura di Poincaré rimase insoluta. Nel 2000 il Clay Mathematics Institute inserì il problema tra i sette Millennium Problems, destinando un milione di dollari al matematico in grado di risolverlo. E infine dopo quattro anni di verifiche, numerosi congressi e più di mille pagine di calcoli, il 18 marzo 2010, viene dato l’annuncio dell’imminente premiazione del matematico russo Grigorij Perelman. Vincitore nel 1982, a sedici anni, delle Olimpiadi Internazionali di matematica, Perelman studiò e lavorò in Russia e al MIT, l’autorevole Massachusetts Institute of Technology. Ora Perelman si trova ad un bivio e decide per la strada che verosimilmente nessuno vede. Perelman rifiuta il premio. Non condivide le scelte della comunità matematica internazionale, dichiara che i soldi in Russia portano solo violenza e infine afferma: “Se la soluzione è quella giusta, non c’è bisogno di alcun altro riconoscimento”.
È stato detto di lui: barbone, anarchico, coraggioso, dissociato. E su internet hanno iniziato a circolare immagini rubate di Perelman in metropolitana, Perelman a fare la spesa, Perelman capellone.

Tutto si compra
Cosa significa essere pessimisti?
Il pessimismo non è un’ideologia, è piuttosto un setaccio. Come un equalizzatore che fa passare solo alcune frequenze, il pessimismo fa passare solo alcune informazioni. Non sono le informazioni in sé ad essere sbagliate, ma la logica che ne guida la selezione. Se colleghiamo ad un impianto stereo un equalizzatore che elimina le frequenze alte e basse e fa passare solo le frequenze che vanno dai 250 Hz a 1 kHz sentiremo la nostra musica molto mediosa, stridente, forse ci causerà un mal di testa. Vai ad affermare che quello che stiamo ascoltando non è davvero reale.
Quelle frequenze sono vere, concrete, tangibili. Eppure se prendiamo in considerazione solo quelle avremo una rappresentazione deformata e parziale della realtà.


Il filtro è importante quanto l’informazione che veicola e l’omissione o l’aggiunta di dettagli può falsarne la percezione, inventare cioè un nuovo oggetto.
Il tema dell’informazione è quanto di più attuale si possa ricondurre a questo discorso proprio perché il sapere passa sempre per una sottile linea che può essere facilmente manipolata.
Così è anche il pessimismo, quella visione oscura che passa per realismo e dietro la quale resta solo terra bruciata. Quel sentimento che non sa trovare altro che conferme e riscontri e mai si occupa di mettersi in discussione. Quell’occhio sulla realtà fatto di cinismo e crudezza dove non c’è altro posto al mondo che quello occupato dal potere e dai potenti e, nello scalino più basso, dai raccomandati.
Così nella musica, nella discografia, nel cinema, nella vita.

Scale di valori
Non basta suonare una chitarra per essere degli artisti. Non conta tanto quello che fai ma come lo fai. Si può suonare la chitarra come se si stesse facendo il lavoro più noioso del mondo, sotto tortura, obbligati da scale di valori altrui, si può suonarla male ma con grande trasporto, bene ma senza anima. Il virtuosismo conquista certe platee. La densità di un tocco lento ne conquista altre. E la musica la si può fare per ragioni infinitamente diverse, opposte talvolta.
Cosa unisce la ricerca di Igor Stravinskij alla fisarmonica di un musicista da balera? La musica del fisarmonicista seduto di fronte al palco dove si balla il liscio fa arricciare il naso a tanti. Provocherà scherno, imbarazzo, dileggio.

Da questa parte di mondo un gruppo di appassionati di musica contemporanea sta ascoltando un quartetto dissonante nell’auditorium di un celebre teatro. Qui si sta facendo la musica con la “m” maiuscola, dietro la quale c’è una ricerca culturale, artistica, sociale. Dietro questo quartetto d’archi c’è una propulsione di saperi, di conoscenze, di studi musicali enormi. Una musica che scrive la storia, che va sui libri di storia, una musica che frequenta gli ambienti più chic di ogni paese.
Nella balera invece si sta consumando il rituale profano dell’ignoranza in cui nessuno sa nulla, tutti danzano, e i ragazzini ai bordi della festa ridacchiano nel vedere i nonni che si muovono un po’ goffamente.
Ma quanti sorrisi, quanta gioia, quanta spensieratezza!

Nei nostri libri di storia, nella nostra cultura, nelle nostre accademie, non si affrontano questi temi. Il sorriso, la gioia e la spensieratezza non appartengono alla conoscenza. Nessuno studia mai la felicità, e non si pratica come sapere, nessuno si esercita a perseguirla.
Le nostre istituzioni culturali sono fondate su altre questioni. La musica con la “M” maiuscola è dura, pesante, dolorosa. Perché la nostra cultura ci ha trasferito l’idea che solo ciò che è doloroso è culturalmente importante. Il resto è una bazzecola, non degno di attenzione. Leggero, superfluo.
Per fortuna che i campetti di calcio e i giardini pubblici esistono ancora! Perché fosse per come è organizzato il nostro sapere dovremmo avere solo dei grossi e cupi santuari dell’erudizione.

I ciclopi
Non esistono in natura animali con un occhio solo. A parte un tipo di crostaceo non più grande di 2 millimetri che sguazza negli oceani e nei laghi di tutto il mondo, pesci, anfibi, uccelli, mammiferi, insetti, tutti insomma, abbiamo due occhi. È normale quanto pazzesco, pensandoci bene, che in natura questa straordinaria dotazione sia uguale per tutti. Qual è la differenza tra avere due occhi e un occhio solo in questo mondo?
Se proviamo a chiudere un occhio, vediamo la realtà identica a quella della visione binoculare, ma c’è un dettaglio che fa la differenza. Vedere con due occhi consente di mettere in relazione le dimensioni tra gli oggetti, cosa che una visione monoculare non può fare.


Se disegniamo su un foglio di carta una figura umana e accanto una piccola automobile abbiamo due possibilità: o si tratta dell’auto di uno gnomo oppure l’auto è parcheggiata un po’ più lontano rispetto alla distanza che ci separa dall’individuo. Questa percezione delle distanze ce la dà l’esperienza e, a monte, la nostra visione – chiamiamola – stereo. Gli occhi raccolgono le informazioni visive di un oggetto da due punti leggermente distanti l’uno dall’altro, questo scarto di distanza, e le differenze di forma che producono permettono al cervello di stabilire le relazioni tra l’oggetto e il mondo circostante.
Così in natura non solo vediamo ma, anche, sappiamo mettere in relazione gli oggetti tra loro. Questo è il senso del guardare. Ma anche metafora del capire, esplorare, comprendere. La capacità di cogliere il rapporto tra gli oggetti, il rapporto tra le idee, i fatti, le azioni, gli eventi. Una visione ciclopica della realtà, una visione che non coglie i legami tra le cose, è una visione ferma, statica, pigra. Una visione che non permette la variazione, dove tutto si ripete secondo il filtro di uno sguardo rigido.

Il successo
Nella musica italiana domina la consuetudine secondo cui il leggero vende. E non è difficile trovare radio intasate da canzoni che ripetono una sull’altra frasi banali che fanno rima con mi manchi, ti voglio, ho bisogno di te, voliamo via, e altre numerose immagini depauperate dall’eccessivo uso. Insomma il sentimentalismo funziona sempre, vende.
Anche i giovani cantautori sono costretti a confrontarsi con questa tendenza che vuole la hit al centro dell’universo. Una visione che brucia tutto intorno a sé, che non lascia la possibilità di un percorso, che trasforma la musica in una palestra dove solo l’atleta che salta più in alto viene visto. E solo dopo, se vorrà, potrà dedicarsi a fare il suo secondo album più interessante.


Il leitmotiv ricorrente è “non sono famoso abbastanza per fare ciò che voglio”. Qui non solo casca l’asino, ma sprofonda l’intero regno animale, Noè, l’Arca e tutta l’acqua che piovuta dal cielo. Resta una voragine con niente attorno. La sensazione di non poter fare nulla, di dover attendere, di vendere l’anima per poi poter recuperare il tempo perduto. Ma vendere l’anima è, come direbbe un matematico, una funzione unidirezionale. Come mescolare l’acqua con la vernice: una volta fatto non puoi più tornare indietro. Non puoi separare di nuovo i due elementi. Hai creato una vernice più annacquata e ora con quella devi dipingere la tua parete.
La via d’uscita da questo uragano distruttivo è che il successo non si pianifica. Non ci sono strategie per ottenerlo. Il successo, se lo vuoi, è parte dei misteri della vita. Forse arriverà, forse no. L’unica cosa che puoi fare per cercare di ottenerlo è non cercarlo. L’unica cosa che puoi fare è lavorare sodo nella tua personale, unica, forse sbagliata, direzione.

L’unica cosa che devi fare è onorare ogni giorno la fortuna di poter anche solo tentare di perseguire un sogno. In questo mondo se hai dei vestiti addosso, se il tuo frigo contiene dei cibi, se hai dell’acqua che esce dal rubinetto della cucina, sei più fortunato del 75% delle persone che camminano su questa terra. Allora occorre avere almeno la saggezza e il coraggio di sapere quello che stiamo facendo. Non è un virtuosismo della coscienza: si tratta di iniziare a guardare con occhi nuovi chi siamo, scoprire quali rapporti silenziosi intratteniamo con gli altri, trasformare il pensiero in azione. E se una consuetudine è sbagliata: cambiarla.

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