Mandarono Orazio e me...

... eravamo entrambi della città, a fare quel servizio in quel teatrino vicino alla ferrovia.

di Stefano Cantadori

Lupetto

“Una scuola di musica”, ci dissero, ma aveva richiesto tantissimi microfoni.
Per cui portammo il mixer più grosso che c’era, quello che Orazio usava con i New Trolls, che a quei tempi a gigantismo spettacolare se la giocavano con i Pooh. Trentadue canali, bordél, mica ceci.
In lista c’erano una marea di spie e ci portammo tutto il meglio di quei tempi (Orazio era il capo magazziniere) compresi i formaggini con i componenti Altec della Voice of the Theater e due valige di microfoni, con tutto l’arco costituzionale di marche e modelli.
Schierammo tutti i nostri cannoni, innestammo i microfoni sulle aste, provammo tutte le linee e aspettammo l’arrivo dei signori clienti.
Per primo, si presentò un autobus di genitori e figli con ogni tipo di custodie e astucci. Poi quelli con le batterie. Ce n’erano quattro? Di più sul palco non ci stavano, ma dovettero discutere un bel po’ per convincere i genitori degli esclusi. I sassofoni, questi erano ragazzotti già un po’ cresciuti, li misero tutti e quindici sulla destra, vicino alle chitarre acustiche che non riuscii a contare perché erano su due file, al centro, davanti alle batterie. A sinistra uno sterminio di flauti, clarini, ciambagazzi e sturpellieri. Poi una serie di cosi che facevano pow pow. E mi sembra anche trombe, un bel po’, dalla parte dei sax. Ci sarà stato anche qualche coro ma io non lo ricordo.
E poi c’era lui: il Maestro.
Che in spia voleva sentire tutto.
E siccome non riusciva a sentire dalla spia la sua celestiale composizione perché quindici sax, quattro batterie, una schiera di bassisti, trombe e tromboni, suonavano assai più forte della spia, l’uomo si innervosì. Sempre di più. Tentammo di spiegargli, con calma e con tutta la professionalità possibile ma non ci furono ragioni. Voleva sentire dalla spia come se stesse ascoltando un disco a casa, dimentico della cacofonia che lo circondava. Si trattava del famoso rapporto segnale/disturbo trasformato in disturbo/disturbo.
Travolto dall’orrore dei suoi cento ragazzi stipati uno sull’altro nell’angusto palcoscenico a pestare soffiare, trapanare, senza ottenere ordine alcuno, e non sentendo dalla spia la sognata armonia, arrivò sull’orlo di una crisi isterica.
E lo superò. Per ogni ragazzo potevi agevolmente contare i genitori, nonne ed amici, tutti in teatro fin dal pomeriggio. Nessuno taceva. Si intrecciavano mille conversazioni, tutte ad alta voce o gridate per superare il drum drum pow pow peeeeee, strin stran PAAAAAA, sting stong (lo sting stong è il tipico verso emesso dai bassi elettrici in talune circostanze). L’inizio della spettacolo non fu altro che la continuazione di ciò che già stava succedendo, solo senza le luci in sala.
Morale: anche durante lo spettacolo interruppe la performance per scusarsi con il pubblico della nostra imperizia. Il pubblico non capì di cosa stava parlando e noi eravamo professionalmente sereni ma divertiti, anche se non lo davamo a vedere, mantenendo l’espressione seria del tecnico che sa a cosa servono tutte quelle lucine. Quando l’ilarità ci sopraffaceva e non riuscivamo a trattenerci, lo facevamo di nascosto, chinandoci a ridere a turno sotto al mixer. La prova a cui i nostri timpani e la nostra mente furono così a lungo sottoposti fu durissima.
In ditta la mattina dopo raccontammo tutto e in ufficio risero come matti. Avevamo capito che il cliente non avrebbe mai pagato il servizio ma la ditta non solo ci perdonò ma si scusò per averci mandato. Non contano i tecnici, non contano le apparecchiature se manca la materia prima: Sua Maestà la Musica.
La quale, come sappiamo, si genera attraverso un meccanismo che si chiama musicista che ha bisogno del suo tempo per diventare tale.
Credo che un’avventura così sia capitata a tutti, facendo questo mestiere; spero la abbiate presa bene come riuscimmo a fare noi quella volta.

 

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